Aveva ragione Ivan Illich?



Nel 1978  i Saggi Mondadori pubblicavano ‘Nemesi medica’ di Ivan Illich, traduzione dell’inglese ‘Limits to Medicine – Medical Nemesis’. Anche per gli echi non ancora spenti della spinta rivoluzionaria (perché tale è stata) del ’68, il libro doveva avere un certo successo anche in Italia, dove non sono mancate negli stessi anni delle voci autonome. Mi limito a ricordare il benemerito Franco Basaglia, veneto, psichiatra che Illich giudicava però non abbastanza radicale, e l’amato Giulio Antonio Maccacaro, medico, biologo, biometrista, lombardo propugnatore instancabile  e agguerrito di una medicina democratica. Miei coetanei, che ci hanno lasciato troppo presto  con un vuoto non ancora colmato.
Ivan Illich è stato una singolare figura di pensatore-profeta. Nato a Vienna nel 1926, ha migrato a lungo per l’Europa, in particolare in Italia, per trasferirsi nel 1950  a New York, dove è stato prete cattolico in una comunità irlandese-portoricana, poi a Portorico e dal 1960 in Messico. E’ morto nel 2002 a Brema.       Conosceva tredici lingue e aveva  sette lauree.
Al centro dei suoi  interessi è il concetto di iatrogenesi, la ‘potenziale causa di danni alla salute legati all’organizzazione sanitaria moderna’. Nemesi secondo Illich è ‘la risposta alla ubris, la presunzione dell’individuo che cerca di acquisire gli attributi del dio’. La moderna ubris sanitaria ha determinato  la nuova sindrome della nemesi medica.
La prima frase del libro è già significativa: ‘la corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute’. A sostegno della sua idea, Illich porta un gran numero di prove, compresa la dimostrazione che ‘durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti… il ruolo decisivo nel determinare come si sentono gli adulti e in quale età tendono a morire è svolto dal cibo, dall’acqua, dall’aria, in correlazione con il grado di uguaglianza sociopolitlca e i suoi meccanismi culturali che permettono di mantenere stabile la popolazione….la salute è un tutto inscindibile, non divisa per organi e apparati, è una qualità della vita e non una merce…’ ‘il fatto che la medicina moderna è diventata molto efficace nel trattamento di sintomi specifici non significa che rechi maggiori benefici alla salute dei pazienti.
Distingue:
 una iatrogenesi clinica, causata dai medici o dalle medicine:
 una iatrogenesi sociale, che spinge la sanità a diventare consumatrice di medicina curativa, preventiva, ecc,    caratterizzata da ‘vari sintomi di supermedicalizzazione sociale che costituiscono l’espropriazione della medicina’. Tra i principali l’uso e l’abuso di farmaci, anche dannosi (per citarne un paio che ci riguardano da vicino, il cloroamfenicolo e il talidomide). Illich ricorda che per i greci il potere di guarire del pharmakon non era distinto dal potere di uccidere. Prima del 1899 e della diffusione dell’aspirina, l’agente terapeutico  più importante era il medico stesso con i suoi pochi farmaci efficaci: l’oppio, il vaccino antivaioloso, il chinino per la malaria, l’ipocacuana per la dissenteria clinica. Ai tempi di Nemesi medica, i farmaci della cui efficacia esistevano prove inconfutabili erano poco più del 2% degli oltre 4.3oo presenti sul mercato. Quaranta anni fa, clinici di chiara esperienza affermavano che quelli essenziali di cui si potrebbe avere bisogno in qualunque momento per il 99%  dell’intera popolazione, non arrivavano a tre dozzine. Non c’è ragione di pensare che oggi, con  diecine di migliaia di prodotti offerti dall’industria farmaceutiche   e adottati, spesso senza filtro medico, dai pazienti di tutto il mondo, le cose  siano di molto cambiate;
 una iatrogenesi culturale,  che ‘distrugge le capacità  dell’individuo di far fronte in modo personale e autonomo, alla propria umana debolezza, vulnerabilità, unicità’.. ‘L’uomo industrializzato ha imparato a cercare di acquistare tutto quello di cui ha voglia…prendere un farmaco, non importa quale e per quale motivo, è un’ultima possibilità di affermare il proprio dominio su di sé’. ‘quando un comportamento e una serie di illusioni promossi dalla medicina restringono l’autonomia vitale degli individui insidiando la loro capacità di crescere, di aver cura l’uno dell’altro e di invecchiare, o quando l’intervento medico mutila le possibilità personali di far fronte al dolore, all’invalidità, all’angoscia e alla morte’. ‘Gli scienziati hanno preteso ‘di sganciare la medicina da qualunque sistema di valori: e per liberarla dal religioso l’hanno esclusa dall’etico’.
I lettori delle mie precedenti rubriche (che non invidio per questo) avranno trovato in molte di queste il mio punto di vista sui danni che la ‘medicina moderna’ è costretta ad ammettere tra le conseguenze del suo formidabile affermarsi negli ultimi secoli, accanto alle sue indiscutibili conquiste.  Consentitemi  di trarne qui una sintesi, verosimilmente l’ultima.
Prima di tutto potrei citare un vasto numero di occasioni in cui ho dubitato della saggezza della scienza medica così come ci veniva raccontata e insegnata, per la presunta necessità di ingabbiare i quadri morfologici  e funzionali che incontriamo in un gran numero di cassetti, simili a quelli del gelataio o dei tobacconists londinesi, nei quali vanno obbligatoriamente racchiusi i soggetti che vengono a chiederci aiuto: e se non ci stanno, si forzano a entrarci,  sotto precise etichette che si definiscono le malattie.  Di qui,  tra l’altro, la medicalizzazione forzata di tanti quadri che sono solo varianti di una normalità intesa in senso statistico.
Un episodio tragicomico è la storia dei paramorfismi. Già l’idea di immaginare che esiste una categoria di forme a cavallo tra il normale e il patologico è balorda: come si fa a definire con esattezza in termini non statistici ma individuali i limiti del normale riferito alle forme? Per fortuna, dei paramorfismi non si parla più: ma sono serviti per decenni a risolvere problemi economici di strutture e specialisti. Ricordo ancora con rabbia quando la città di Merone, nel comasco, ha devoluto tutti i pochi soldi che anche per mia insistenza la regione Lombardia aveva destinato all’assistenza ai disabili, all’organizzazione di sedute di ginnastica per bambini ‘paramorfici’, naturalmente in strutture private. O quando a un importante congresso sul ‘piede piatto’, il potentissimo cattedratico locale, alla mia obiezione che il piede piatto nel bambino sino a sei anni è del tutto fisiologico e che è un obbrobrio condannarlo alla tortura della inutile scarpa ortopedica,  mi rispondeva che ‘qualcosa bisognava pur dare alle mamme preoccupate’. Mentre il più grande fabbricante del Veneto di scarpe ortopediche ci assicurava, a nome dei suoi colleghi che bastava che gli specialisti ordinassero delle scarpe normali ben fatte e le facessero cambiare spesso, quando necessario: e loro erano tutti contenti.  Dopo poco scoprivo che la maggior parte dei migliori centometristi, non solo negri, hanno il piede piatto, probabilmente perchè il tricipite surale migliora il suo braccio di leva.
  A proposito di cifosi giovanile, tanto temuta e giustificazione di per lo più inutili corsetti ortopedici di vario tipo, mi è stato facile far presente ai  miei giovani allievi come fosse accentuata la cifosi di Schollander, campione olimpionico di nuoto stile libero: aveva sette litri di capacità vitale.
All’altro estremo della vita, con il quale ho avuto e ho dimestichezza in questi anni. Un vecchio (chiamiamolo tranquillamente con il suo nome) non può non avere una riduzione della forza e della sensibilità, dei problemi di equilibrio, dei disturbi della minzione, una riduzione dell’acuità uditiva, un presbiopia: di qui  a definirlo automaticamente ‘malato’ e a intestarsi in esami complessi e non sempre  innocui per classificarlo ce ne corre.  ‘La vecchiaia già considerata ora un dubbio privilegio ora una pietosa conclusione, ma mai una malattia, recentemente è stata messa sotto controllo medico’ . Non sono certo l’unico a dire che oggi assistiamo a un eccesso di prescrizione di esami costosi, soprattutto ma non solo per immagini, con il loro carico ansiogeno e la difficoltà di lettura da parte del paziente di referti  astrusi, come ‘lievi accenni di spondilodiscoartrosi con riduzione del disco intervertebrale e modesta  osteoporosi’, in un soggetto ottuagenario.  Amo molto i radiologi che si limitano a scrivere: normale per l’età.
Per non parlare degli istituti specializzati per anziani, che ‘sembrano essere diventati il dispositivo strategico odierno per disfarsi dei vecchi.’ Quanto poi alle terapie mediche, tra i miei conoscenti ho un record di 24 compresse in una giornata in un ottantacinquenne: tutte necessarie?
Le cose mi sono apparse con maggior chiarezza quando, quasi subito, ho cominciato a occuparmi di medicina riabilitativa, non tanto per quanto riguarda le diagnosi e gli esami, che anzi correttamente mi sembrano contenuti rispetto ad altri settori, quanto per le ‘terapie’. Infatti la ‘riabilitazione’ si presta particolarmente agli interventi di guaritori non sempre in buonafede e di farmaci miracolosi, che occupano un ampio posto accanto agli operatori seri e alle poche cure efficaci. IIlich tra le migliaia di cure mediche disponibili ne salva una trentina. Certo, anche in  medicina riabilitativa si è fatta largo la necessità di affidarsi a una medicina basata sull’evidenza. Ma non dimentichiamo che lo stesso Cochrane affermava che la fisioterapia è la branca nella quale è più difficile condurre ricerche statistiche sulla efficacia di una cura. Intervengono molti fattori determinanti, tra i quali a mio parere fondamentale è la presenza per molte delle cure di un terzo elemento umano, il terapista: la relazione paziente-terapista è senza dubbio determinante sul risultato.  Non per niente Milani Comparetti, una delle menti più lucide della riabilitazione italiana, mi ammoniva ‘devi  dare al paziente non una terapia fisica, ma una  fisioterapista (allora non ce ne erano di maschi), se possibile brava.’
Quanto alle terapie strumentali, mi basta ricordare  che all’inizio (anni 50) fisioterapia coincideva con elettroterapia, soprattutto di derivazione francese (ne era stato antesignano nientemeno che il triumviro Marat). Abbiamo avuto allora tante belle informazioni di interesse fisiologico, ma ben poche applicazioni pratiche efficaci. Temo che molte terapie in voga negli anni 60-70 non siano più nemmeno ricordate dai giovani specialisti: la diadinamica, le correnti interferenziali, gli impulsi anestetici di lunga durata, la ionoforesi transcerebrale, la diatermia. Non solo le terapie, ma anche e ancor più le indicazioni:  i raggi ultravioletti a dose eritema nelle sindromi addominali, le onde corte negli adenomi dell’ipofisi…
 E quando ci dicevano che  per stimolare un muscolo bisognava  conoscerne esattamente la  cronassia, diversa da muscolo a muscolo? e ci suggerivano di stimolare i muscoli denervati, nella presunzione di facilitarne la reinnervazione o per lo meno mantenerne il trofismo: con 15 minuti di stimolazione al giorno, feste escluse? Noi avevamo dimostrato (1966) in poliomielitici che fibre denervate conservano in parte la loro struttura  e la loro eccitabilità, e quindi possibilmente la capacità di recuperare quando stimolate, fino a diciassette anni dalla denervazione: ne ho avuto ulteriore prova con la mia più che trentennale paralisi chirurgica del facciale. E che ‘i quindici minuti al giorno’  di contrazioni globali indotte nel muscolo con impulsi triangolari non servivano a niente (Lissoni).
  E poi, stimolandoli con un apparecchio simile a quello usato per i nostri concorsi primariali al Rizzoli di Bologna, che erano da un’eternità fissi su una sola durata e una sola intensità e davano la scossa all’operatore quando impugnava gli elettrodi?
Era un campo felice per  ‘inventori’ in buona o cattiva fede. Ricordo un apparecchio di stimolazione che mi è stato proposto e che ricalcava esattamente l’arnese con cui si fanno (debbo dire ‘si facevano’, maledizione) gli spaghetti alla chitarra all’Aquila.
Ma il discorso valeva anche per altri campi della fisioterapia strumentale. Sono stato testimone di tQQQante cure inutili, e anche dannose per il paziente: sedute di ultrasuoni corredate da scosse elettriche dolorose,  ustioni da forni Bier, applicazioni di radiazioni assolutamente inefficaci per la malattia e pericolose  per la cute. Non è per intervenire in una plurisecolare polemica con i sostenitori di quelle terapie  fisiche alternative, che  trovano ancora sostenitori entusiasti e non sempre in buona fede. Mi ha immunizzato aver conosciuto, da giovanissimo, lo splendido “Malato Immaginario” di MoIière, che almeno prevedeva un’ alternativa tra  “purger e saigner”.
Per non parlare delle conseguenze effettivamente dannose in sé,  come la spesso inutile e antiriabilitativa ospedalizzazione in reparti riabilitativi, resa necessaria, oltre che dal cospicuo ricavo che ne traggono le strutture, dall’ingordigia di letti propri da parte di molti primari.
Una coraggiosa ricerca, svolta da molte strutture fisioterapiche nazionali negli anni 80, arrivava per la marconiterapia, la radarterapia, la ionoforesi, la magnetoterapia, gli ultrasuoni, le correnti interferenziali     alla  rassegnata conclusione che ‘non c’era nessuna prova di una maggiore efficacia della terapia rispetto al placebo’ e, come consuetudine , invitava ad ulteriori studi che non si facevano mai. Coraggiosa perchè dalle terapie strumentali derivava per le strutture fisioterapiche, e forse deriva ancora per molte di esse, la maggior parte dei proventi: e quindi presumibilmente derivavano gli stipendi dei ricercatori. Si salvavano con effetto temporaneo il caldo, il freddo, i massaggi, l’acqua (non quella termale, naturalmente), le buone vecchie cure delle nostre nonne. 
Resta la ricca chirurgia delle forme disabilitanti. Di molti interventi ho assistito alla nascita e alla più o meno precoce scomparsa. Soprattutto la mia esperienza africana mi ha insegnato che gli interventi  più efficaci sono i più semplici e quelli che richiedono minori sconvolgimenti nel controllo della nuova situazione. Ancora una volta, nell’insufficienza del quadricipite meglio una osteotomia sovracondiloidea che la trasposizione  del bicipite femorale. E attenzione alle ripercussioni  ‘ a distanza’ nello spazio e nel tempo delle modificazioni indotte dall’intervento.  Il blocco di una delle  articolazioni del retropiede può determinare gravi e dolorose conseguenze funzionali sull’avampiede e sulle dita.
Le cose non vanno meglio, penso siate d’accordo, per le tecniche cinesiterapiche e affini, delle più varie provenienze e per lo più eponime, il cui numero è oramai davvero sbalorditivo. Anche qui c’è molto da dire. Da quelle inutili, non in grado di ottenere risultati migliori di quelli delle tecniche classiche, a quelle francamente dannose. Un problema maggiore è quello della scarsa attendibilità delle premesse scientifiche addotte dai propugnatori. Sono rimaste senza  riposta, e oramai purtroppo per sempre, le sessanta domande che avevo proposto più volte a Vojta,  un amico gentile che non c’è più, rovinato come molti guru dall’eccessivo entusiasmo dei suoi collaboratori. Gli schemi di massa di Kabat hanno poco da spartire con le sinergie spontanee, ad esempio del cammino. E i fedeli del GSS hanno,  lo spero  vivamente, concordato con le obiezioni fatte in diverse riprese da me sul loro bollettino (http://www.gss.it/argomenti.htm ) alle tecniche furbe e redditizie proposte negli ultimi cinquanta anni da autori francofoni sulle orme della oramai indifesa m.lle Mézieres.
E poi i danni concreti. Ricordo il povero neonato sottoposto a tecniche vojtiane, schiacciato prono su un tavolo, con il seno della mamma che preme sul dorso e tre degli arti bloccati , di modo che potesse muovere solo il quarto per  la pressoché miracolosa comparsa dello schema di strisciamento. E poi crescevano autistici! E i delittuosi insegnamenti di Doman, che sfruttava (o sfrutta ancora?) le intuizioni interessanti sulla locomozione delle tartarughine di Temple Fay per sottoporre i piccoli pazienti a torture  ingiustificabili, scrivendo poi che se non si ottengono buoni risultati è perché la madre, la grande imputata, non segue correttamente le sue prescrizioni: aggravandone così il  per lo più ingiustificato senso di colpa. Quante coppie scoppiate, quanti fratellini abbandonati a se stessi per il Doman. che della madre assorbe tutto il tempo e l’impegno.
 E in particolare il danno invisibile ma non per questo meno grave, connesso all’atteggiamento fideistico  che queste tecniche richiedono: l’abbandono dei medici seri e delle terapie serie.
 Mi si potrebbe osservare che la fisioterapia è il settore della medicina per il quale l’effetto placebo è più intenso (dal 30 al 70%). Pinelli mi faceva osservare che se col  voodoo si può far morire, con una cura di per sé non decisiva ma nella quale il paziente  crede fermamente si può anche far guarire. Ma è molto triste dover accettare, come ho scritto tanto tempo fa, che dieci minuti di trattamento con un apparecchio di ultrasuoni spento possono essere più efficaci di un quarto d’ora di ascolto da parte di un medico nel quale si ha fiducia.
Il tutto  è  sensibilmente peggiorato negli ultimi anni, con l’evoluzione politico-amministrativa della nostra sanità,  con la trasformazione delle strutture in aziende e degli utenti in clienti, dove comandano gli obiettivi economici nonchè le spinte partitiche, con conseguenze gravi. Ricordo quando il nuovissimo proprietario di una buona clinica con un buon equipaggiamento riabilitativo ha chiesto a metà luglio ai primari e ai consulenti riuniti appositamente di far raddoppiare per la fine dell’anno le entrate della struttura. Me ne sono andato subito. Lo stesso hanno fatto molti medici coscienziosi: ho notizia certa di tre bravi primari riabilitatori che hanno lasciato anzitempo il loro incarico in ospedali pubblici, perché non ne potevano più delle carte e dei bilanci e volevano poter esercitare il loro mestiere di medici.  
E poi il martellamento pubblicitario televisivo,  e la marea di informazioni non  controllate che appaiono sul web. Proprio oggi trovo nella mia mail un annuncio di oltre trenta diverse specialità ‘naturopatiche e massaggistiche’, tra le quali alcune ineffabili come la tecnica metamorfica, il massaggio spirituale del piede, la riflessologia olistica (riecco la parola miracolosa).
Allora, non è servita a niente la lezione di Ivan Illich, sfrondata dagli eccessi che ci si potevano attendere da un prete comunista? Negli ultimi decenni, la ricerca sanitaria ‘si è liberata di molti dei suoi vincoli, ha criticato gli assunti di base, è stata costretta ad una rigidità maggiore e a una visione complessiva che tenesse conto dell’interazione tra ambiti ristretti, a scoprire una prospettiva ecologica, a inventare una epidemiologia nuova, una nuova economia sanitaria. Si diffonde l’idea che vada recuperato il carattere umano della cura, che ‘si cura il malato e non la malattia’, l’idea che la salute è un tutto inscindibile, non divisa per organi e apparati, che è una qualità della vita e non una merce’ (Scotti).  Ma tutto questo ha provocato una dilatazione della burocrazia medica, che come dice Illich crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando i rapporti di dipendenza, generando nuovi bisogni, abbassando i livelli di sopportazione del disagio e del dolore, riducendo il margine di tolleranza che si usa concedere al malato che soffre, abolendo il diritto di autosalvaguardarsi’ e ‘la lingua in cui la gente potrebbe far esperienza del proprio corpo diventa gergo burocratico.’ In attesa di una completa liberazione dai vincoli, nella pratica quotidiana osserviamo infatti ancora troppe cose che danno ragione alla pessimistica visione di Ivan Illich.
Per quanto mi riguarda, debbo  ammettere che, anche sulla scorta dell’insegnamento ippocratico citato  da Illich ‘ per il malato il meno è il meglio’, la maggior parte della mia attività di medico negli ultimi decenni è consistita più nel togliere che nel dare: sconsigliare visite e esami inutili e trattamenti inefficaci e sostituirli con un maggiore ascolto e con l’empatia che a un medico, specie se riabilitatore, non può non essere richiesto. A costo di annoiare: si ‘prende in carico’ la persona, non si cura la malattia o si debellano i sintomi.  Si fa anche questo, quando è possibile, ma non è l’essenziale. E l’abusato aggettivo ‘olistico’ in medicina riabilitativa è di casa e giustificato
 In ogni caso, i risultati del mio personale approccio non debbono essere stati cattivi, se ancora oggi mi salutano e mi vengono a trovare, con figli e nipotini, i miei amati poliomielitici di cinquanta anni fa. Sarà una caratteristica genetica. Il mio caro nonno, medico condotto a Forlì alla fine dell’800,  al compimento dei 75 anni di età ha inviato a tutti gli amici una cartolina, con la sua fotografia con la fluente barba  bianca a due punte e la catena d’oro dell’orologio che attraversa il panciotto, sulla quale ha scritto: ‘Arrivato a 75 anni in virtù della medicine solo ad altri concesse’. Oh,  l’onestà dei medici di una volta!



2 commenti:

  1. Grande! Ogni tanto dovrebbe essere resa obbligatoria la lettura di questo articolo...

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  2. Ogni volta che lo leggo mi emoziono... grazie Professore, il suo ricordo è sempre vivo!

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