lunedì 27 febbraio 2012

What’s in a name? Shakespeare, Romeo and Juliet

Fisiatria, fisiopatologia e riabilitazione cardiorespiratoria, fisioterapia, medicina fisica e riabilitativa, medicina fisica e riabilitazione, medicina riabilitativa, medicina riabilitativa e medicina manuale, neurologia riabilitativa, palestra, recupero e riabilitazione funzionale, recupero e rieducazione funzionale dei motulesi e dei neurolesi, recupero, rieducazione funzionale e fisioterapia, riabilitazione, riabilitazione e recupero funzionale, riabilitazione e rieducazione funzionale, riabilitazione e terapia fisica, riabilitazione e terapie palliative, riabilitazione funzionale, riabilitazione intensiva, riabilitazione ortopedica, riadattamento, rieducazione funzionale, rieducazione neuromotoria intensiva, terapia fisica, terapia fisica e riabilitazione, terapia fisica e rieducazione funzionale, terapia fisica e rieducazione motoria… Non sono le litanie della Santa Fisiatria: sono, in stretto ordine alfabetico, ventotto denominazioni differenti di servizi, reparti, centri ospedalieri nei quali lavoravano gli autori di altrettante comunicazioni presentate a un recente congresso della nostra società scientifica.

A quanto pare la confusione è grande sotto il nostro piccolo cielo. In un ospedale che ho visitato di recente, il visitatore veniva indirizzato (o meglio deviato) da una serie di indicazioni diverse, ciascuna con la sua relativa freccia: fisioterapia, terapia, medicina riabilitativa, recupero e rieducazione funzionale, fisiochinesiterapia e infine palestra.

Mentre il giovane amore di Giulietta le consentiva di amare Romeo indipendentemente da come si chiamasse, sono certo, per lunga esperienza, che la confusione terminologica non giovi a una migliore comprensione da parte del pubblico, ma anche e soprattutto dei medici e delle autorità accademiche, della nostra identità. Se cominciassimo a metterci d’accordo almeno sul significato da dare alla parola riabilitazione? Mi ha sorpreso piacevolmente, di recente, riscoprire il fatto che il termine ‘riabilitazione’ è stato introdotto nel ‘dominio sociosanitario’ nello stesso anno, il 1949, nel quale io, giovane assistente, entravo nell’Istituto di Terapia Fisica dell’Ospedale Maggiore a Milano, l’unico servizio autonomo esistente in Italia.

Allora, quella che oggi chiamiamo medicina riabilitativa si chiamava appunto Terapia Fisica. Era una terapia di serie B, si basava su una serie di applicazioni di energie fisiche, calore, radiazioni elettromagnetiche, onde meccaniche, con qualche, non dimostrata, efficacia nei confronti di una patologia talmente ricca da apparire improbabile (e certamente lo era: ricordo un’indicazione della marconiterapia nell’adenoma dell’ipofisi!). Negli ultimi tempi si erano aggiunti a carico della Terapia Fisica il massaggio e soprattutto la terapia con il movimento, la cinesiterapia, che presto è stata interpretata come terapia del movimento, e infine come terapia del movimento con il movimento. E infine, con l’aggiunta di una serie di tecniche valutative specifiche per la diagnosi e per la prognosi, la terapia fisica era diventata ‘medicina fisica’. E tale era ancora agli inizi degli anni 50: ad esempio nel titolo della rivista leader nel mondo, la statunitense Archives of Physical Medicine.

Ma a questo punto il passaggio successivo era obbligato. Le alterazioni del movimento rappresentavano e rappresentano ancora la maggior parte di una serie di esiti invalidanti di eventi morbosi acuti, con ripercussioni di diversa gravità su quella che poi si sarebbe chiamata ‘qualità della vita’ della persona colpita: in quegli anni del secondo dopoguerra, in particolare dalla poliomielite anteriore acuta e da lesioni midollari da eventi bellici.

Al termine ‘medicina fisica’ è stata aggiunta la parola riabilitazione, creando un ibrido che personalmente non ho mai gradito, ma che si perpetua ancora, ad esempio nella denominazione della nostra società scientifica, la SIMFER Ma la riabilitazione è scienza, disciplina, obiettivo, processo, strumento? Parte della confusione, all’origine delle difficoltà che la medicina riabilitativa incontra nel trovare la sua identità nasce dal fatto che mentre nella medicina tradizionale l’obiettivo è la guarigione, il processo è la cura e lo strumento sono le medicine, in medicina riabilitativa l’obiettivo è la riabilitazione, il processo è la riabilitazione, lo strumento è la riabilitazione. La riabilitazione di Giovanni Rossi, emiplegico, si ottiene riabilitandolo con la riabilitazione… Vediamo se possiamo mettere un po’ d’ordine. Quando studiavo medicina, e ancora oggi nei nostri trattati, esiste un ‘modello medico’ per l’approccio al paziente: il ‘quadro clinico’, visita e esami complementari, suggerisce al medico una patologia, che implica un’eziologia, una causa contro la quale agiranno i nostri trattamenti. L’esito è la guarigione o la morte: due diverse soluzioni allo stesso problema.

Alla riduzione continua del numero di pazienti che affluiscono agli ambulatori e agli ospedali con affezioni acute ha fatto riscontro il numero sempre crescente di pazienti che lamentano problemi, spesso generati da eventi acuti ma i cui effetti si prolungano nel tempo provocando difficoltà nella gestione della vita personale, familiare e sociale, in seguito all’aumento di incidenti del traffico, dello sport e del lavoro con un più alto numero di sopravvissuti, la sopravvivenza da malattie un tempo mortali, l’aumento drammatico della lunghezza della vita, con maggiori probabilità di incontrare eventi disabilitanti. Questo ha costretto l’OMS a istitutire un gruppo di lavoro, che alla fine degli anni 70 ha dato delle preziose indicazioni sul modo di affrontare questa situazione pubblicando l’ICIDH, la classificazione internazionale dei danni, delle disabilità e degli handicap, dove era disegnato l’iter che conduce dall’evento morboso all’handicap: dall’evento morboso nasce il danno, l’alterazione ‘del corpo’, che a sua volta genera disabilità, l’incapacità ‘della persona’ di svolgere attività che aveva acquisito (o che sarebbe stato in grado di acquisire). L’impatto tra la disabilità e gli ostacoli posti dall’ambiente architettonico, pisicologico ed economico genera l’handicap, che è la socializzazione della disabilità. Giovanni Rossi, affetto da accidente acuto da vasculopatia cerebrale, riporta una paralisi (danno) che gli impedisce di camminare (disabilità). Potrebbe ancora recarsi al bar a giocare a carte con gli amici se un ascensore troppo stretto, dei gradini in fondo alla scale, un marciapiede troppo alto non gli impedissero di recarvisi (handicap) in carrozzina.

Con questa precisazione, la differenza tra disabilità e handicap è determinante: handicappato non è un sostantivo e neanche un aggettivo, è solo un participio passato.

Obiettivo della riabilitazione è dunque prevenire o eliminare l’handicap. E quindi preservare o recuperare una migliore qualità della vita, secondo un’espressione di moda.

Se l’handicap è il risultato dell’impatto tra disabilità e barriere, in gran parte legate all’organizzazione sociale, si può intervenire sull’uno o sulle altre. La lotta per la prevenzione, l’eliminazione o almeno il contenimento della disabilità è compito della riabilitazione ‘medica’, quella per la prevenzione o l’eliminazione delle barriere è compito della riabilitazione ‘sociale’.

Medicina riabilitativa è il braccio armato della riabilitazione medica, un insieme di operatori, di tecniche, di strumenti dedicati.

Ha naturalmente un suo corpus di premesse teoriche, per cui è, anche, una disciplina.

Alla fine del secolo, il gruppo di lavoro ha fatto un altro passo, con l’elaborazione dell’ICF, l’International Classification of Functionment, rovesciando la medaglia, da negativo in positivo: si valutano le condizioni di salute, per ogni persona, valutandone struttura e funzione (l’alterazione è il danno), attività (la limitazione è la disabilità), la partecipazione (la limitazione è l’handicap). La classificazione vale per tutti: tutti abbiamo delle attività e un certo grado e tipo di partecipazione. Questo approccio supera la difficoltà di dover stabilire un limite netto tra normale e patologico. Il nuovo punto di vista riduce la differenza tra disabilità e handicap, enfatizzando il ruolo del contesto personale, e quello del contesto familiare,professionale, sociale.

Fine della riabilitazione è pertanto l’ampliamento massimo della partecipazione.

Conclusione: per una singola persona esiste una sola riabilitazione. Non si riabilita l’emiplegia di Giovanni Rossi, ma Giovanni Rossi, che oltre l’emiplegia può presentare i postumi di una frattura di femore, una broncopneumopatia, una cardiopatia, problemi vescicosfinterici, una situazione familiare disastrata… Pertanto il termine riabilitazione non ammette prefissi o suffissi e neppure aggettivi, se non tra virgolette.

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