lunedì 27 febbraio 2012

Proposta di semplificazione del glossario riabilitativo


Nella prima chiacchierata di questa rubrica, ho ceduto a una mia vecchia ossessione: ho parlato male dell’eccessiva imprecisione e della spesso scorretta e acritica utilizzazione del vocabolario della medicina riabilitativa, che provoca sconcerto nei non addetti ai lavori e difficoltà topografiche nel reperimento delle strutture dedicate.
D’altra parte, ho sempre creduto che una critica fine a se stessa abbia poco valore, e in molti casi sia disdicevole, se non è accompagnata da proposte concrete di soluzione del problema.
Ho chiesto alla direzione del GSS che mi lasciasse avanzare qualche proposta di semplificazione e di chiarificazione del glossario riabilitativo: hanno risposto di sì.
Fisiatria
Etimologia
Φύσiσ – natura
Ιατρόσ – medico da ιάσθαι - sanare
Definizione dei vocabolari
Disciplina medica deputata al trattamento dell’apparato di locomozione e del sistema nervoso con mezzi fisici [vedi fisioterapia (Devoto Oli)].
E’ sicuramente un termine breve e comodo da utilizzare, purchè sia chiaro che è sinonimo di medicina riabilitativa. Lo stesso vale per il termine fisiatra, medico specialista in medicina riabilitativa.
Fisioterapia
Etimologia
Φύσισ– natura
Θεραπέια– servizio, cura da θέραπον - servo, scudiero (!!)
Definizione dei vocabolari
Ramo della medicina riabilitativa che si avvale di mezzi fisici, dell’attività fisica e del massaggio a fini terapeutici (Zingarelli) accompagnati da ginnastica e massaggio (Devoto Oli).
Non viene naturalmente specificato cosa si intenda per ‘mezzi fisici’. L’unica interpretazione ‘storica’ possibile è l’esclusione dei mezzi chimici, di sintesi o naturali (farmaci) e biologici (vaccini, sieri) che hanno fagocitato pian piano la pratica medica nell’800 e nel primo novecento.
E’ termine assolutamente inadeguato a identificare l’attuale medicina riabilitativa, in quanto è centrato sulla natura dei mezzi utilizzati e non sull’obiettivo per cui vengono utilizzati. Può essere riservato a quel gruppo di terapie molto diffuse, anche se solo in piccola parte validate, che si servono realmente della somministrazione diretta nel corpo umano di energie fisiche, in prevalenza elettriche (elettroterapia), elettromagnetiche (radar, marconi, laser), meccaniche (ultrasuoni, onde d’urto) (terapia fisica strumentale).
Cinesiterapia
Alla cinesiterapia deve essere riservato il significato di terapia del movimento con il movimento, secondo una classica definizione di Georgi. E’ pertanto uno degli strumenti, tra i più importanti, della rieducazione motoria. Da proscrivere, ovviamente, l’uso di cinesiologia, o peggio chinesiologia, come strumento terapeutico, e soprattutto dell’aborrito ma troppo spesso usato FKT.
Resta il problema se sia giusto inserire tra le terapie fisiche ‘strumentali’ la ionoforesi, la sonoforesi e l’aerosol, dove di fisico c’è soltanto il mezzo di somministrazione, non diversamente da quanto avviene per le iniezioni, sottocutanee o endovenose.
Fisioterapista
Etimologia (vedi Fisioterapia)
Definizione dei vocabolari
Tecnico che applica la fisioterapia (Devoto Oli).
Si presta ovviamente alle stesse critiche che valgono per Fisioterapia. Resta il fatto che è il termine utilizzato in buona parte del mondo (non in Francia, ad esempio), per l’egemonia in questo campo della versione anglossassone.
E’ interessante l’evoluzione del termine in Italia: kinesiterapista, poi (quando si è capito che il greco κ si trasforma nel c dolce italiano, vedi cinematografo, cinematica, e così via) cinesiterapista, poi fisioterapista, poi terapista della riabilitazione: termine che si voleva comprendesse tutte le varietà di operatori, comprendendo i terapisti occupazionali e i logoterapisti. E’ durato più di venti anni, per ricadere ufficialmente nel termine fisioterapista, tutto sommato il minore dei mali.
Quanto al terapista occupazionale, vorrei ribadire la mia antica avversione per il termine, di diretta discendenza psichiatrica, quando ‘l’occupazione’, un’attività lavorativa o ludica, era utilizzata come terapia per molti malati mentali rinchiusi nei manicomi o per far passare il tempo, tessendo su un piccolo telaio delle sciarpette che non avrebbero mai indossato, ai poveri bambini poliomielitici costretti in letto per mesi per una chirurgia del rachide, come avveniva a Garches, nei dintorni di Parigi, negli anni cinquanta.
Oggi il ‘terapista occupazionale’ (un aggettivo che secondo il Devoto Oli, è ‘in relazione con la manodopera’) fa ben altro: si occupa della rieducazione alla vita quotidiana, sa utilizzare e in parte costruire ortesi amovibili, si occupa dell’adattamento dell’ambiente di vita. Non sarebbe il caso di cambiare il nome alla terapia occupazionale? Apro l’asta per una proposta linguisticamente accettabile (ergoterapia è ancora più riduttivo).
Medicina fisica
Etimologia
Dal lat. mederi, medicare
Definizione dei vocabolari
Medicina: scienza che ha per oggetto lo studio delle malattie, la loro cura e prevenzione (Devoto Oli) ma anche professione del medico e insieme dei rimedi.
Le stesse obiezioni che per terapia fisica, di cui è stata, negli anni ‘40, l’evoluzione che rifletteva l’allargamento del campo di interesse dalla semplice terapia alla diagnosi e alla valutazione, con mezzi propri.
Riabilitazione
Etimologia
Da lat. re- restitutivo, habere, possedere
Definizione dei vocabolari
Reintegrazione di una persona, ritorno, restituzione a una normale attività, efficienza o altro (Zingarelli); ma anche ripresa della funzionalità di un arto (BUR).
Riferita al dominio sanitario, branca della medicina che comprende tutte le manovre terapeutiche che mirano alla prevenzione e alla riduzione degli esiti invalidanti delle malattie, con il fine di migliorare la qualità della vita in relazione della persona al suo ambiente, e si propone diagnosi, valutazione dell’handicap, trattamento precoce, adeguato e correlato con i farmaci (Encyclopédie MédicoChirurgicale, Elsevier).
Riabilitare: conforme al significato dell’inglese “to rehabilitate”, restituire un grado di efficienza e di funzionalità (Devoto Oli).
Seguendo le due successive linee guida dell’OMS, può essere vista come un intervento globale per prevenire o eliminare l’handicap (ICIDH), o per preservare o allargare l’area della partecipazione (ICF). Può pertanto essere suddivisa, senza limitazioni nette tra i due domini (la carrozzina rappresenta le gambe del paraplegico o un mezzo di trasporto?) in riabilitazione medica (lotta per prevenire, contenere o eliminare le disabilità), compito delle strutture e degli operatori sanitari, e riabilitazione sociale (lotta per la prevenzione e l’abbattimento delle barriere: è l’impatto delle disabilità con le barriere, frutto per lo più dell’organizzazione sociale, a creare l’handicap), compito dell’intera comunità.
Rimane purtroppo irrisolto il problema, anche in termini operativi, del triplice significato del termine riabilitazione nel ‘dominio sociosanitario’: l’obiettivo, il percorso, gli strumenti, che nella medicina tradizionale vengono felicemente sostituiti dai termini guarigione, cura, farmaci. Certamente non può essere una specialità medica, e a mio parere non può essere neanche una ‘scienza’ dato che trae le sue premesse da una lunga serie di nozioni ‘scientifiche’ di origine diversa, mediche in senso lato, umanistiche, e perché no filosofiche.
Centrale nell’uso del termine riabilitazione è comunque il fatto che si rivolge a una persona nel suo insieme, compreso il contesto personale e ambientale. Ancora una volta, si riabilita il sig. Rossi, non l’emiparesi del sig. Rossi. Non può pertanto essere intesa come di esclusiva spettanza medica, e non ammette, a mio parere, né prefissi né aggettivi che qualifichino i settori patologici di applicazione: riabilitazione neurologica (e tanto meno neuromotoria), ortopedica, cardiologica, respiratoria, vescicale, anche per la frequenza con la quale il sig. Rossi presenta contemporaneamente disabilità di origine neurologica, ortopedica, cardiologica, respiratoria, vescicale e magari cognitiva.
Rimane anche il problema dell’intervento su soggetti che non hanno, o non hanno ancora, acquisito, e quindi non possono aver perduto, delle abilità: il bambino con malformazioni o patologie perinatali. E’ stato proposto per qualche tempo il termine abilitazione, che però non ha avuto fortuna. Dato che obiettivi, operatori e strumenti sono gli stessi, credo che il termine riabilitazione possa essere senza difficoltà esteso alla prima infanzia.
Medicina fisica e riabilitazione
Nell’ultima definizione (MR del marzo 2004), “Physical Medicine and Rehabilitation è una specialità medica indipendente che è interessata in particolare alla promozione del ‘funzionamento’ fisico e cognitivo, delle attività (compresi i comportamenti), della partecipazione (compresa la qualità della vita) e con la modificazione dei fattori personali e ambientali. E’ pertanto responsabile della prevenzione, della diagnosi, della cura e del trattamento riabilitativo di persone con condizioni mediche disabilitanti e comorbidità in tutte le età. Gli specialisti in MFR hanno un approccio olistico alle persone con condizioni acute e croniche, tra la altre disordini muscoloscheletrici e neurologici, amputazioni, disfunzione di organi pelvici, insufficienza cardiorespiratoria, e disabilità dovute a dolore cronico e cancro. Gli specialisti in MFR lavorano in diverse strutture dalle unità acute di cura a istituzioni comunitarie. Usano tecniche di valutazione diagnostica specifiche e conducono trattamenti che includono interventi farmacologici, fisici, tecnici, educativi e vocazionali. Per la natura della loro formazione comprensiva sono nella posizione migliore per essere responsabili delle attività delle équipes multiprofessionali per raggiungere gli outcome migliori”.
Ovviamente è una definizione complicata e piuttosto contorta, in contrasto con quanto avviene per le discipline mediche specialistiche che sono definite semplicemente dalle patologie che trattano (neurologia, cardiologia, otorinolaringoiatria) e anche di quelle definite dall’età delle persone che prendono in cura (pediatria e geriatria). Per il suo carattere ‘al disopra delle patologie speciali’ e perchè definita dagli obiettivi, è più affine alla ‘medicina preventiva’.
Presa in sé, la definizione ufficiale invece per molti versi si attaglia a buona parte delle altre discipline mediche: un medico ‘non olistico’ non è un medico.
Restano le obiezioni valide per il termine Medicina fisica, e un certo stridore all’incongruità di riunire in un solo termine una disciplina con le sue premesse teoriche e le sue applicazioni, comunque la si voglia intendere, e un processo globale che va al di là degli aspetti medici.

Medicina riabilitativa
E’ l’insieme degli operatori, degli strumenti e delle tecniche dedicate in modo particolare alla riabilitazione medica, di cui è ‘il braccio operativo’. E’anche una disciplina, con le sue basi teoriche, i suoi insegnamenti e le sue deduzioni operative.
Anche questo termine indica ad un tempo gli obiettivi, il processo e i mezzi: causa non ultima di confusione. Sidney Licht, un pioniere, incerto se intitolare uno dei suoi primi libri Medical Rehabilitation o Rehabilitation Medicine, tagliò la testa al toro scegliendo Medicine and Rehabilitation. A mio (e ovviamente non solo mio) parere è comunque il termine più indicato anche per denominare i reparti e i servizi dedicati.
Recupero
Etimologia
Lat re- restitutivo, capio prendo: ripresa di qualcosa che si è perso, in parte o tutto reinserimento nella vita sociale per mezzo di un’opera di rieducazione (Devoto Oli).
Rieducazione
Il termine rieducazione può essere molto adatto, e in questo senso è ampiamente utilizzato dalla letteratura francofona, per quella parte importante dell’intervento riabilitativo che consiste nel trattamento dei segni e nella ricerca di compensi. In questo senso è molto più giustificato dell’abusato riabilitazione.
Credo si possa accettare una rieducazione neurologica, ortopedica, vescicosfinterica nel senso di trattamento con metodiche di medicina riabilitativa dei segni delle rispettive patologie. Mai, mi si conceda, una riabilitazione neurologica, ortopedica, cardiologica e così via per indicare quella parte della presa in carico riabilitativa che si occupa appunto del recupero di funzioni alterate o perdute. E’ a mio parere corretto anche parlare di una rieducazione motoria, funzionale (da distinguere da una rieducazione analitica) e una rieducazione intensiva.
Riabilitazione funzionale
Etimologia di funzionale
lat fungi, fungere
Definizione dei vocabolari
Relativo alle funzioni, che adempie alle funzioni per cui è stato costruito (Zingarelli).
Non ha senso: non si può immaginare una ‘riabilitazione’ che prescinda dal recupero delle funzioni.
Concludendo, ecco le mie proposte
Dare al termine riabilitazione il suo significato allargato e comprensivo, definito dagli obiettivi dell’intervento.
Lasciare solo una dignità ‘storica’ al termine medicina fisica e riabilitazione, e utilizzare il termine medicina riabilitativa per indicare la disciplina, la specialità medica, le strutture dedicate, gli strumenti che caratterizzano la presa in carico riabilitativa di pazienti di tutte le patologie.
Utilizzare rieducazione (eventualmente aggettivata) per il trattamento di danni e disabilità specifiche.
Conservare i termini fisiatria, fisiatra, fisioterapista per la loro diffusione e semplicità di uso.
Non aggiungere prefissi o aggettivi qualificativi al termine riabilitazione riferiti a singole specialità mediche e eliminare termini come riabilitazione funzionale, recupero funzionale.
Sarò molto grato a quanti dei lettori mi faranno arrivare osservazioni e critiche al sito del GSS (info@gss.it) o a www.szimbo@libero.it. Naturalmente, mi farebbe piacere che qualcuno fosse d’accordo. L’importante è per me che si arrivi a una semplificazione e unificazione dei termini: è possibile.
E… fate presto, per favore.

What’s in a name? Shakespeare, Romeo and Juliet

Fisiatria, fisiopatologia e riabilitazione cardiorespiratoria, fisioterapia, medicina fisica e riabilitativa, medicina fisica e riabilitazione, medicina riabilitativa, medicina riabilitativa e medicina manuale, neurologia riabilitativa, palestra, recupero e riabilitazione funzionale, recupero e rieducazione funzionale dei motulesi e dei neurolesi, recupero, rieducazione funzionale e fisioterapia, riabilitazione, riabilitazione e recupero funzionale, riabilitazione e rieducazione funzionale, riabilitazione e terapia fisica, riabilitazione e terapie palliative, riabilitazione funzionale, riabilitazione intensiva, riabilitazione ortopedica, riadattamento, rieducazione funzionale, rieducazione neuromotoria intensiva, terapia fisica, terapia fisica e riabilitazione, terapia fisica e rieducazione funzionale, terapia fisica e rieducazione motoria… Non sono le litanie della Santa Fisiatria: sono, in stretto ordine alfabetico, ventotto denominazioni differenti di servizi, reparti, centri ospedalieri nei quali lavoravano gli autori di altrettante comunicazioni presentate a un recente congresso della nostra società scientifica.

A quanto pare la confusione è grande sotto il nostro piccolo cielo. In un ospedale che ho visitato di recente, il visitatore veniva indirizzato (o meglio deviato) da una serie di indicazioni diverse, ciascuna con la sua relativa freccia: fisioterapia, terapia, medicina riabilitativa, recupero e rieducazione funzionale, fisiochinesiterapia e infine palestra.

Mentre il giovane amore di Giulietta le consentiva di amare Romeo indipendentemente da come si chiamasse, sono certo, per lunga esperienza, che la confusione terminologica non giovi a una migliore comprensione da parte del pubblico, ma anche e soprattutto dei medici e delle autorità accademiche, della nostra identità. Se cominciassimo a metterci d’accordo almeno sul significato da dare alla parola riabilitazione? Mi ha sorpreso piacevolmente, di recente, riscoprire il fatto che il termine ‘riabilitazione’ è stato introdotto nel ‘dominio sociosanitario’ nello stesso anno, il 1949, nel quale io, giovane assistente, entravo nell’Istituto di Terapia Fisica dell’Ospedale Maggiore a Milano, l’unico servizio autonomo esistente in Italia.

Allora, quella che oggi chiamiamo medicina riabilitativa si chiamava appunto Terapia Fisica. Era una terapia di serie B, si basava su una serie di applicazioni di energie fisiche, calore, radiazioni elettromagnetiche, onde meccaniche, con qualche, non dimostrata, efficacia nei confronti di una patologia talmente ricca da apparire improbabile (e certamente lo era: ricordo un’indicazione della marconiterapia nell’adenoma dell’ipofisi!). Negli ultimi tempi si erano aggiunti a carico della Terapia Fisica il massaggio e soprattutto la terapia con il movimento, la cinesiterapia, che presto è stata interpretata come terapia del movimento, e infine come terapia del movimento con il movimento. E infine, con l’aggiunta di una serie di tecniche valutative specifiche per la diagnosi e per la prognosi, la terapia fisica era diventata ‘medicina fisica’. E tale era ancora agli inizi degli anni 50: ad esempio nel titolo della rivista leader nel mondo, la statunitense Archives of Physical Medicine.

Ma a questo punto il passaggio successivo era obbligato. Le alterazioni del movimento rappresentavano e rappresentano ancora la maggior parte di una serie di esiti invalidanti di eventi morbosi acuti, con ripercussioni di diversa gravità su quella che poi si sarebbe chiamata ‘qualità della vita’ della persona colpita: in quegli anni del secondo dopoguerra, in particolare dalla poliomielite anteriore acuta e da lesioni midollari da eventi bellici.

Al termine ‘medicina fisica’ è stata aggiunta la parola riabilitazione, creando un ibrido che personalmente non ho mai gradito, ma che si perpetua ancora, ad esempio nella denominazione della nostra società scientifica, la SIMFER Ma la riabilitazione è scienza, disciplina, obiettivo, processo, strumento? Parte della confusione, all’origine delle difficoltà che la medicina riabilitativa incontra nel trovare la sua identità nasce dal fatto che mentre nella medicina tradizionale l’obiettivo è la guarigione, il processo è la cura e lo strumento sono le medicine, in medicina riabilitativa l’obiettivo è la riabilitazione, il processo è la riabilitazione, lo strumento è la riabilitazione. La riabilitazione di Giovanni Rossi, emiplegico, si ottiene riabilitandolo con la riabilitazione… Vediamo se possiamo mettere un po’ d’ordine. Quando studiavo medicina, e ancora oggi nei nostri trattati, esiste un ‘modello medico’ per l’approccio al paziente: il ‘quadro clinico’, visita e esami complementari, suggerisce al medico una patologia, che implica un’eziologia, una causa contro la quale agiranno i nostri trattamenti. L’esito è la guarigione o la morte: due diverse soluzioni allo stesso problema.

Alla riduzione continua del numero di pazienti che affluiscono agli ambulatori e agli ospedali con affezioni acute ha fatto riscontro il numero sempre crescente di pazienti che lamentano problemi, spesso generati da eventi acuti ma i cui effetti si prolungano nel tempo provocando difficoltà nella gestione della vita personale, familiare e sociale, in seguito all’aumento di incidenti del traffico, dello sport e del lavoro con un più alto numero di sopravvissuti, la sopravvivenza da malattie un tempo mortali, l’aumento drammatico della lunghezza della vita, con maggiori probabilità di incontrare eventi disabilitanti. Questo ha costretto l’OMS a istitutire un gruppo di lavoro, che alla fine degli anni 70 ha dato delle preziose indicazioni sul modo di affrontare questa situazione pubblicando l’ICIDH, la classificazione internazionale dei danni, delle disabilità e degli handicap, dove era disegnato l’iter che conduce dall’evento morboso all’handicap: dall’evento morboso nasce il danno, l’alterazione ‘del corpo’, che a sua volta genera disabilità, l’incapacità ‘della persona’ di svolgere attività che aveva acquisito (o che sarebbe stato in grado di acquisire). L’impatto tra la disabilità e gli ostacoli posti dall’ambiente architettonico, pisicologico ed economico genera l’handicap, che è la socializzazione della disabilità. Giovanni Rossi, affetto da accidente acuto da vasculopatia cerebrale, riporta una paralisi (danno) che gli impedisce di camminare (disabilità). Potrebbe ancora recarsi al bar a giocare a carte con gli amici se un ascensore troppo stretto, dei gradini in fondo alla scale, un marciapiede troppo alto non gli impedissero di recarvisi (handicap) in carrozzina.

Con questa precisazione, la differenza tra disabilità e handicap è determinante: handicappato non è un sostantivo e neanche un aggettivo, è solo un participio passato.

Obiettivo della riabilitazione è dunque prevenire o eliminare l’handicap. E quindi preservare o recuperare una migliore qualità della vita, secondo un’espressione di moda.

Se l’handicap è il risultato dell’impatto tra disabilità e barriere, in gran parte legate all’organizzazione sociale, si può intervenire sull’uno o sulle altre. La lotta per la prevenzione, l’eliminazione o almeno il contenimento della disabilità è compito della riabilitazione ‘medica’, quella per la prevenzione o l’eliminazione delle barriere è compito della riabilitazione ‘sociale’.

Medicina riabilitativa è il braccio armato della riabilitazione medica, un insieme di operatori, di tecniche, di strumenti dedicati.

Ha naturalmente un suo corpus di premesse teoriche, per cui è, anche, una disciplina.

Alla fine del secolo, il gruppo di lavoro ha fatto un altro passo, con l’elaborazione dell’ICF, l’International Classification of Functionment, rovesciando la medaglia, da negativo in positivo: si valutano le condizioni di salute, per ogni persona, valutandone struttura e funzione (l’alterazione è il danno), attività (la limitazione è la disabilità), la partecipazione (la limitazione è l’handicap). La classificazione vale per tutti: tutti abbiamo delle attività e un certo grado e tipo di partecipazione. Questo approccio supera la difficoltà di dover stabilire un limite netto tra normale e patologico. Il nuovo punto di vista riduce la differenza tra disabilità e handicap, enfatizzando il ruolo del contesto personale, e quello del contesto familiare,professionale, sociale.

Fine della riabilitazione è pertanto l’ampliamento massimo della partecipazione.

Conclusione: per una singola persona esiste una sola riabilitazione. Non si riabilita l’emiplegia di Giovanni Rossi, ma Giovanni Rossi, che oltre l’emiplegia può presentare i postumi di una frattura di femore, una broncopneumopatia, una cardiopatia, problemi vescicosfinterici, una situazione familiare disastrata… Pertanto il termine riabilitazione non ammette prefissi o suffissi e neppure aggettivi, se non tra virgolette.

sabato 14 gennaio 2012

IO LI HO CONOSCIUTI 2

Cominciamo, noblesse oblige, con un presidente della Repubblica dei primi anni 60, Antonio Segni, che sono stato chiamato a visitare a Roma perchè era stato colpito da un ictus da trombosi cerebrale, con danni motori e gravi problemi di linguaggio. Peccato, perchè mi sarebbe piaciuto chiedergli qualcosa di mio zio, Fernando Tambroni ( chiamato in famiglia ‘il gerundio’), che era stato coinvolto sotto la sua presidenza in un brutto affare, il caso SOLO e la prima partecipazione della destra fascista al governo. E’ venuto a Milano, alla Casa di Cura Sanatrix, una piccola clinica di poche camere nata per la nostalgia  per la riabilitazione di Felice Casari, che era stato il primo,  amato primario dell’Istituto di Terapia Fisica di Niguarda dal 48 al 53, caratterizzata, oltre che da un’ottima attività riabilitativa, dalla ancor migliore cucina curata dalla moglie parmigiana del proprietario. Ricordo il presidente alto, sottile, con il soprabito blu e la bella sciarpa di seta bianca, che si armonizzava bene con i bei capelli argentei. Un gran signore.

E una lunga sfilata di politici milanesi di tutte le sponde ben noti allora: Malvestiti, Masini, Marcora, Rivolta, Peruzzotti…la passione politica si scaricava per lo più sulla muscolatura della colonna.

Mio è padre era pianista, e in quegli anni difficili si dava da fare per la rinascita di una vita musicale milanese, organizzando con la Camerata Musicale preziosi concerti: per cui molti miei ricordi sono legati al mondo della musica. Nell’immediato dopoguerra, la rivelazione del Nuovo Quartetto Italiano. Quattro giovani, Borciani, Pegreffi, Farulli e Rossi, che di lì a poco dovevano incantare il mondo. Quattro folletti, come li ha battezzati Giulio Confalonieri, principe dei critici musicali e  grande giocatore di scopone scientifico al bar Giamaica, a Brera. Ricordo un’ affannata corsa in taxi per recuperare un archetto del violoncello a Rossi: il suo si era rotto al’ultimo minuto. E in serata un commovente  quartetto di Debussy nell’ospitale ma gelida casa di Giulia Maria Crespi in via Borgonuovo. I termosifoni in quel primo dopoguerra non  funzionavano:  gli invitati erano pregati di portare un ciocco di legno per il camino.

Poi, e prima di  tutti, Maria Callas, la voce di soprano più emozionante di tutti i tempi al servizio di una musicalità ineguagliabile, in quei tempi regina del teatro alla Scala. Era alle prese con un peso corporeo che giudicava eccessivo e che avrebbe, come si sa, combattuto con successo senza perdere, come tutti temevamo, l’incanto della sua voce. Veniva all’Istituto con il suo cagnolino, e ci intratteneva con tante e non sempre generose storie  sul suo mondo, e soprattutto sui suoi colleghi. E in particolare su Renata Tebaldi, ottima soprano e sua principale rivale.

Unito nel ricordo a Maria Callas,  Leonard Bernstein che l’ha diretta in una trionfale Medea di Cherubini,  la sua originalità interpretativa, la sua simpatia: una volta si è presentato a una prova scaligera vestito da gondoliere veneziano. Ricordo anche le sue bretelle color viola, che sfidavano il malocchio, e naturalmente il suo mal di schiena.

Il mio mestiere mi ha portato in casa Abbado, una casa dove si respirava musica. Sono stato accolto con grande signorilità da  Michelangelo, ottimo violinista e padre di Marcello, poi direttore del Conservatorio di musica di Milano dove mio padre ha insegnato nel primo dopoguerra, e di Claudio, al quale debbo tanti indimenticabili momenti di grande musica e, recentemente, il sogno di vedere scambiata la sua giusta mercede con  95.000 alberi da piantare  a Milano: davvero un sogno, temo, dati i tempi bui, ma non per questo meno affascinante.  In quell’occasione mi ha fatto dono di una sua  recente edizione della Cenerentola  di  Rossini.

Nel campo dello spettacolo  Milano era al centro della scena. Erano gli anni della rivelazione del piccolo Teatro, di Strehler e di Grassi, ma anche dei molti teatri  che non ci sono più. Ricordo la prima di ‘Questi Fantasmi’ di Eduardo al Mediolanum. Ero vicino di posto di un entusiasta Ruggero Ruggeri. E Anna Magnani, allora soubrette di Totò, con la quale ho attraversato, di notte, una piazza del Duomo deserta.

Sono state clienti dell’Istituto di Terapia Fisica di Niguarda, per dei danni muscoloscheletrici, tre belle e brave attrici: Agostina Belli, Giulia Lazzarini, Lucilla Morlacchi. era divertente  ascoltare da loro i retroscena di un mondo che mi ha sempre incantato.

E ho conosciuto professionalmente Paolo Stoppa, che si lamentava con la sua voce inconfondibile di un bruscolo nell’occhio. L’ho visto, in una bella vestaglia nella sua camera all’Hotel de Milan e, senza grande merito, guarito. E  negli anni seguenti Marcello Moretti e poi Ferruccio Soleri, ineguagliabili ambasciatori di italianità nel mondo con il loro Arlecchino servitore di due padroni. Mi piacerebbe poter pensare di avere una piccola parte di merito nella prodigiosa giovinezza di Ferruccio, che continua a recitare splendidamente una parte fisicamente molto ardua, nonostante i dolori alla schiena di cui mi ero occupato anche io. Gli attori sono fragili, e io ero chiamato a confortarli.

Dario Fo e Franca Rame li ricordo nella loro casa di piazzale Baracca, con i quadri di Dario alle pareti e i compagni più meno ammaccati di Soccorso Rosso su materassi stesi per terra: il Nobel era ancora lontano. E dopo, la vergognosa aggressione a Franca vissuta con grande forza e dignità, in un lungo faticoso recupero.

In un campo molto diverso, non posso dimenticare Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963 per i suoi studi sui polimeri. Era affetto da una forma grave di morbo di Parkinson a inizio omolaterale controllato abbastanza bene da in intervento stereotassico, in gran voga in quegli anni. Il danno si è esteso all’altro lato, e un nuovo intervento non solo non ha migliorato la situazione, ma ha determinato un crollo grave di tutte le facoltà cognitive. Succedeva, dopo interventi bilaterali. Era terribile vedere una delle migliori intelligenze della prima metà del ‘900 ridotto a non farsi capire neanche dalle persone a lui più vicine.

Poi, i  nomi della grande borghesia milanese, non facilmente distinguibile dalla aristocrazia: ne ricordo soprattutto le belle case e i bellissimi quadri.

La duchessa Gallarati Scotti. La sua camera da letto nel mio ricordo è enorme, con un letto enorme, nel  quale la minuta duchessa mi riceveva, parlando nella sua splendida ‘lingua’ milanese. E aveva un fondo oro senese alle spalle.

Casa Belgioioso:  il principe mi intratteneva con il suo abito di campagna, naturalmente elegantissimo,  sull’andamento dei raccolti di quell’anno.

Grandi case e splendidi quadri: le scale di palazzo Bagatti Valsecchi impreziosite dai generali di Enrico Baj, che ammiravo mentre il padrone di casa mi parlava dei suoi dolori, tanto per cambiare alla schiena.

I Galtrucco di via Annunziata: ero entrato a casa loro perché la deliziosa piccola Giovanna era stata colpita dalla polio. Ce la siamo cavata bene, e Giovanna  è rimasta una delle mie migliori amiche. Approfittavo della intelligenza e della forza di carattere di mamma Galtrucco, per avere conoscenza diretta di tutte le proposte spesso strambe e ancor più spesso truffaldine che circolavano sul trattamento dei postumi di polio: mamma Galtrucco andava a verificare dal vivo e mi riferiva. E io avevo notizie dirette sull’inconsistenza della proposta, e potevo parlarne male e dissuadere con le prove i genitori degli altri piccoli sempre in attesa del miracolo. Mi ricordo quando ha portato Giovanna dal mago di Napoli, allora  celeberrimo, portando con sé il lenzuolo pulito sul quale Giovanna doveva essere trattata…

E giacchè siamo in via Annunziata, Alberto Pirelli, allora senza dubbio il più importante industriale di Milano. Della sua abitazione mi sono rimasti impressi il silenzio sepolcrale e i grandi vasi cinesi.

Il clan dei Falck: ricordi belli, come la disponibilità di mamma Cecilia e le grazie di Orietta. Erano tempi strani: molte giovanette della Milano bene avevano una scoliosi. Altri buffi. Alla morte del capofamiglia, la famiglia aveva regalato al Centro pilota di don Gnocchi due splendide palestre. All’ingresso c’era una testa in bronzo del benefattore. Erano i tempi della contestazione:  i giovani poliomielitici in carrozzina gareggiavano a chi faceva fare alla testa, che poggiava non  fissata su un perno, il maggior numero di giri colpendo il naso con una pallina di carta. E dopo l’omelia di monsignor Pisoni, presidente della Fondazione, che aveva invitato a dimostrare gratitudine ai benefattori, nell’intervento con  chitarra (allora era di moda) il più audace dei ragazzi usciva, a nome anche degli altri, in un : ‘Signore,  tieni lontano da noi tutti i benefattori’. E non aveva torto: ribadiva che tutto quanto serviva per una vera riabilitazione era un diritto del giovane disabile e doveva essere a carico della comunità, e quindi dello Stato. Non ho mai assistito a un ‘Ite missa est’ eseguito con maggiore celerità.

Per restare nello stesso ambiente, ricordo una   cena del Rotary a Monza, dove tra l’altro si era mangiato, come spesso accadeva, malissimo.  Avevo dovuto chiedere, controvoglia, ai facoltosi convitati un contributo per i bambini distrofici muscolari. Si cominciava allora ad occuparsene: non godevano della legislazione favorevole che interessava poliomielitici e spastici. Un autorevole membro affermava la scarsa importanza sociale del problema, i distrofici non potevano essere più di qualche centinaio. Lasciava qualche migliaio di vecchie lire, e si avviava all’uscita: inciampava sulla soglia e si faceva male. E’ tornato indietro a versare un altro po’ di denaro. L’ho sempre ricordato come un segno dell’esistenza di una superiore giustizia.

Era anche il tempo della guerra del Vietnam. Terre des Hommes, l’agenzia svizzera che si occupava dell’assistenza ai giovani vietnamiti del Sud travolti dall’ingiusta guerra: inviava al nostro centro, scelto tra i centri di tutto il mondo, i bambini affetti da lesioni motorie, in prevalenza poliomielitici. C’era qualche cerebropatico e un  paio di malformati congeniti. E’ stata un’esperienza entusiasmante. Anche i bambini di due-tre anni avevano un  comportamento di una serietà e di una educazione incredibili. Alla festa del Tet, quando l’ambasciatore di Saigon a  Roma veniva a festeggiare  l’inizio dell’anno con i bambini, un delizioso pranzo vietnamita (abbiamo saputo dopo, a Parigi, che la cucina vietnamita è una  delle migliori al mondo) veniva consumato tutti insieme, in un’atmosfera quasi religiosa. E tutti i giornalini comunisti cinesi e nordvietnamiti che arrivavano con gli studenti universitari che accompagnavano i bambini sparivano misteriosamente dalle camerate:  non  ho mai saputo dove finissero. Ho capito invece perchè i nordamericani non l’avrebbero mai spuntata in Vietnam quando ho visto Van Guyen, un  cosino di meno di dieci chili, nato prematuro e poi poliomielitico, non in grado di camminare,  aspettare Joseph, un bambinone camerunense con  spalle da campione dei mediomassimi che pesava quattro volte lui, sulla porta della camerata con un bicchiere pieno d’acqua in mano. Sapeva che Joseph indossava due tutori i cui montanti in ferro sporgevano dal tacco della scarpa  consumato dall’uso intenso. Mi ha detto: ‘sta a vedere, io butto l’acqua per terra, Joseph scivola e cade e io gli salto sopra’. E così’ è stato.

Ed erano anche gli anni della orrenda vicenda del Talidomide, il sedativo diffuso tra le donne in attesa di un figlio, che ha provocato un numero impressionante di  malformazioni dei feti. Ne avevamo diversi al don Gnocchi: un’altra lezione sulle  capacità di difesa dell’uomo anche in situazioni disperate. Ricordo una bambina africana di uno o due anni: amelica bilaterale completa, mancava anche delle scapole, le sue  piccole spalle rotonde ricoperte di seta nera. E  Rosangela, una bambina deliziosa di nove anni. Anche lei era amelica bilaterale,  mancava completamente dei due arti superiori, scapole comprese. Aveva imparato a fare tutto con le dita dei piedi, portava i cibi alla  bocca, cuciva, scriveva. L’avevamo dotata di una protesi meccanica in uso negli anni del dopoguerra: la sistemazione di due ‘dita cinesi’, ditali di paglia intrecciata che si gonfiavano, e quindi si accorciavano, quando veniva introdotto un gas; erano inserite su dei tiranti che muovevano  le dita meccaniche della protesi, ottenendone la flessione e quindi la presa. Rosangela  ne otteneva il riempimento e lo svuotamento schiacciando una valvoletta che comandava con il mento. Una delle sensazioni più tristi della mia vita, che pure non mi ha certamente risparmiato sensazioni dolorose,  la ho avvertita quando ho visto Rosangela  in piedi davanti alla lavagna:  stava scrivendo con un gesso quando l’anidride carbonica contenuta nella bomboletta si è esaurita. Le dita  si sono di colpo aperte, il polso è ruotato in supinazione. La mano artificiale è sembrata una mano vera, morta. Rosangela è scoppiata a piangere.
Mi rendo conto di non aver forse fatto una cosa corretta a inserire nei miei ricordi  i  nomi dei loro protagonisti, in tempi di ossessione per le intercettazioni telefoniche e di esasperazione della privacy ( a proposito, privasi o praivasi?). Ma  avevo molta voglia di rispolverare i miei ricordi,  oltre al fatto che delle persone nominate potevo solo parlare bene e che la maggior parte di loro non c’è  più. E a me non rimane che attendere serenamente che il mio testis dexter diventi rigidus et convulsus, sintomo che nostro padre Ippocrate (Aforismi,93) considerava letale.

IO LI HO CONOSCIUTI 1

Silvano Boccardi

Siamo rimasti in pochi ad avere vissuto la seconda guerra mondiale e gli anni tumultuosi che  sono seguiti: le polemiche dell’ultimo 25 aprile ne sono state un’avvilente prova.
Io sono uno di quelli. E ho voglia di ricordare  alcune delle persone per l’uno o l’altro motivo eccezionali che ho potuto conoscere in quegli anni. Giovane medico, mi sono laureato nel 1947, ho avuto la grande fortuna di essere indotto ad un mestiere allora pressochè ignoto in Italia: quello che solo molti anni dopo si sarebbe chiamato ‘fisiatria’. Mi sono così giovato del vantaggio di chi non ha ‘ concorrenti’, o ne ha comunque pochi. Così, se una persona notevole aveva qualche problema motorio (si trattava per lo più delle conseguenze di un ictus) mi chiamavano a vederlo e a curarlo. Ho imparato solo dopo che in realtà non si trattava proprio di curarlo, secondo i dettami della scienza medica allora ancora piuttosto arretrata, ma di aiutarlo a cavarsela nella vita : adesso diciamo ‘aiutarlo a riabilitarsi’.

Vorrei cominciare da quelli da cui ho imparato molto e forse tutto, e che hanno condizionato la mia visione della riabilitazione, visione nota ai lettori che hanno avuto la bontà di leggere le rubriche che l’amicizia del GSS mi ha consentito di pubblicare in  questi anni.

Per prima, Adelaide Colli Grisoni, donna  eccezionale, a cui dobbiamo la prima lucida esposizione dell’intervento riabilitativo nei bambini con paralisi cerebrale infantile, e in qualche modo l’affermazione di una neuropsichiatria infantile (mi sono a volte dovuto chiedere se  infantile è la neuropsichiatria o il neuropsichiatra) libera dal giogo di un’eccessiva medicalizzazione.


Ricordo qui due lapidarie affermazioni tratte dall’introduzione a ‘L’assistenza educativa al bambino con pci nella prima infanzia’ pubblicato da Cappelli nel 1968: ‘l’opera di recupero nei primi anni è diretta dal Medico e svolta dalla madre’ e ‘niente ginnastica, niente metodo X, niente terapista a casa che fa la seduta’. Interessante tra l’altro che la m di ‘medico’ sia maiuscola e quella di ‘madre’ minuscola: forse un tentativo di farsi perdonare da una categoria la cui egemonia, nel campo dell’assistenza al bambino  con pci, veniva così lucidamente messa in crisi.


E’  stato un vero colpo di fulmine. In margine al primo congresso della Società Italiana di Ginnastica Medica, nel 1952, in una bella mattina di primavera in gondola, sulla laguna di Venezia, chiacchieravo con Adelaide Colli Grisoni, reduce da un viaggio di ricerca su  quanto e come  si faceva nei paesi più evoluti in fatto di assistenza ai bambini con pci. In Italia, un paio di anni dopo doveva essere promulgata la prima legge sull’assistenza agli spastici  (è brutto, ma allora erano chiamati così). E in Italia mancavano strutture e soprattutto medici e terapisti preparati. La Colli (come la chiamavamo) mi chiedeva di aiutarla a realizzare una scuola per terapisti. Mi sembrava un sogno, ma solo un anno dopo presso l’Ospedale Ca’ Granda di Milano partiva il primo corso ufficiale per fisioterapisti istituito dall’ACIS: non  c’era un  Ministero dalla Sanità. La ricordo alta, sottile, di una eleganza sobria, non amava indossare gioielli: ricordo le  difficoltà incontrate quando abbiamo deciso di dimostrarle con un dono il nostro affetto. Era difficile resistere alla Colli, anche quando chiedeva energicamente alle mamme di occuparsi a tempo pieno ma ‘come una mamma’ e non come una terapista del loro bambino ‘spastico’, e di non trascurare gli altri figli: e anzi le incitava ad avere un secondo bambino quando il primo era spastico.

E Alfredo Grossoni: il miglior neurologo che abbia conosciuto. Non era  specialista e tantomeno ‘’professore”. Ma aveva  un impegno  nell’approccio al paziente che ho riscontrato raramente: mi ha insegnato che una visita neurologica seria non può durare meno di un’ora. E  un fiuto clinico incredibile: ho assistito alla discussione di un caso con un altro bravo neurologo del tempo, Alessi, su un caso interessante. Alessi gli richiamava la pag. 231 in alto a destra di un poco noto trattato tedesco, che conosceva a memoria e che suggeriva una diagnosi. E Alfredo gli ricordava a sua volta, grattandosi il naso affilato con una mossa che gli era abituale quando era perplesso, il caso di ‘quell’avvocato che abitava in  via Carducci, che aveva una cravatta a pallini e una cameriera che preparava un ottimo caffè’ per il quale avevano fatto insieme un’altra diagnosi che si era dimostrata giusta. E naturalmente aveva ragione lui. Aveva introdotto in Italia la pneumoencefalografia. Fasiani, il primo neurochirurgo italiano di fama,  chiedeva a lui di segnare sulla cute del cranio del paziente il punto dove  avrebbe dovuto aprire.


Aveva fatto la resistenza. Comunista fino alla tragedia dell’Ungheria quando ha avuto il coraggio di dichiarare in sezione il suo dissenso: allora ce ne voleva. Ma soprattutto gli volevamo bene per la sua disponibilità e generosità. Mi ha insegnato lui a non  farmi pagare le visite. Magrissimo, mi ricordo un caldo giorno di estate, a mezzogiorno, seduti su una  panca del grande atrio centrale della Ca’ Granda. Mi mostrava commosso il panino con prosciutto che gli era stato offerto dalla moglie di un paziente del contado, dicendogli: ‘Poverino, mangi, è così magro’.  Aveva una Citroën due cavalli, con una sedia al posto del sedile di guida, e si meravigliava che non avesse mai bisogno di rabbocchi di acqua e olio, ma neanche di rifornimenti di benzina. Gli amici facevano a turno per riempirgli di notte il serbatoio.

Silvano Mastragostino, ortopedico rizzoliano di grande valore: per questo, e per il carattere schietto di romagnolo, non è mai salito in cattedra. Si chiamava Silvano perchè era nato un anno dopo di me e le nostre mamme erano molto amiche. Era primario al Gaslini e si era fatto una grande esperienza di interventi in età evolutiva: allungamenti di arti, correzioni di scoliosi, trasposizioni tendinee. Era quindi destino che ci riincontrassimo. Silvano andava tutti gli anni in Kenya, al centro di riabilitazione di Ol’ Kalou, dove era atteso come un messia. Provvedeva a tutto lui: i viaggi dei suoi accompagnatori,  suoi collaboratori  ma anche altri specialisti,  e tecnici ortopedici. Per tre anni (86-88) ha portato anche me. Ma anche materiale per gli interventi e le ingessature, farmaci. E soldi. Aveva impiantato a Ol’ Kalou, con l’aiuto di una ditta di Genova, una piccola officina ortopedica perfettamente funzionante: produceva ortesi, scarpe, corsetti, anche ottime protesi. Erano molto belle e produttive  le sedute dell’intera équipe che decidevano gli interventi: più di un centinaio ogni anno. Le conclusioni erano all’insegna, a me graditissima, del ‘togliere’ tutto quanto non fosse essenziale. L’esperienza africana aveva insegnato a Silvano, e poi a tutti noi, come obiettivo dell’intervento, chirurgico e riabilitativo, dovesse essere il recupero della funzione, anche se questo implicava la rinuncia alla soddisfazione dell’operatore per interventi complessi e difficili. Un’osteotomia sopracondiloidea (tra  l’altro piuttosto semplice sulle ossa sottili del bambino poliomielitico: spesso  bastava un’osteoclasia) era di gran lunga preferibile a un intervento di trasposizione  del bicipite pro quadricipite, che dava problemi anche in fase di rieducazione e di solito era scarsamente efficace: tranne nel cammino, dove a volte il bicipite trasposto, stirato in fase di appoggio, si contrae in quanto flessore mentre agisce come estensore. La stessa regola valeva per le ortesi: a che pro dare al bambino delle scarpe ortopediche fabbricate con le correzioni perfette al momento, se poi doveva indossarle nella boscaglia o nella savana e non aveva possibilità di ripararle o di sostituirle per un anno? Lezione che ha influenzato il mio modo di pormi nell’attività quotidiana. E’ giusto sottoporre un emiplegico, che statisticamente può aspettarsi in media due anni di sopravvivenza, a lunghi fastidiosi periodi di rieducazione e addirittura a restare in letto fino a sei mesi, come preconizzato da varie parti, fino a che non abbia recuperato le sinergie corrette prive di sincinesie? E intanto ha  dissipato un quarto della sua aspettativa di vita. Poi Silvano e i suoi collaboratori operavano. I risultati funzionali erano davvero spettacolari e le complicanze rarissime. In un anno, su 120 interventi, un solo caso di infezione nonostante le difficoltà ambientali: ho visto il famoso chirurgo  lavarsi prima di un intervento le mani in un catino smaltato mentre la fanciulletta nera gli versava l’acqua da una brocca.  Grande lezione di efficienza e anche di umiltà: quello che conta alla fine dei conti è se e di quanto abbiamo migliorato la  vita e le ‘possibilità di partecipazione’ del paziente.

Piergiorgio Mazzola, grande esperienza di informatica che lo ha aiutato nella sua preziosa opera di divulgazione a favore dei disabili. Tetraplegico C6-C7 per aver ruotato bruscamente il capo mentre era alla guida della sua auto perché la figlioletta di pochi anni piangeva sul sedile posteriore: drammatica dimostrazione della persistenza dei riflessi tonici del collo in età adulta, in particolari condizioni. Appena in grado di muoversi su una carrozzina, dapprima manuale poi elettrica, ha messo la sua intelligenza e la sua disponibilità al servizio dei suoi compagni di sfortuna. Sono stato con lui fin dal principio: abbiamo condiviso per un certo tempo il mio tavolo di lavoro al centro pilota della Fondazione don Gnocchi. Gli incontri con lui e i suoi amici e compagni erano molto fruttiferi. E’ nata in quel gruppo la sostituzione, anche nei documenti ufficiali della regione Lombardia, dei negativi termini in uso fino allora, anche  a designare le associazioni:  invalidi, incapaci, minorati. con il termine  ‘disabili’. Tutto sommato molto meglio anche dei termini.. pietosamente pietosi che usano adesso: anche Usain Bolt è ‘diversamente abile’. E poi, l’anziano ’fragile’ come una statuetta di Sèvres o di Meissen!

Sono nati così, per merito di Piergiorgio, la pubblicazione ‘Informazione e Riabilitazione’  e il Centro Studi e Consulenza Invalidi, al centro pilota, per  elargire informazioni e consigli preziosi a centinaia di disabili  tutta Italia, che avrebbe visto il suo coronamento nell’istituzione da parte della Fondazione del SIVA (Servizio Informazione e Valutazione Ausili), che sotto la direzione di Renzo Andrich presto sarebbe diventato leader del  settore, e non solo in Europa.     E il DAT, la nuova struttura del Centro di cui la Fondazione può andare orgogliosa, dove si può conoscere e toccare con  mano quanto i progressi della tecnologia e l’esperienza dei disabili mettono a punto per migliorare la loro autonomia, non è che l’ingrandimento di quanto Piergiorgio , con l’aiuto prezioso della sua formidabile moglie, aveva raccolto nella sua casa milanese, mettendolo a disposizione di chi volesse conoscerlo e provarlo. Piergiorgio non si dava da fare solo per i singoli disabili. Suoi sono interventi a volte determinanti sulla agibilità delle strutture architettoniche. Ricordo, per avervi partecipato, la durissima lotta per ottenere la costruzione di rampe sui lati della scalinata del Duomo, dove non si poteva entrare in carrozzina. Impresa eroica, si trattava di mettere d’accordo la Fabbrica del Duomo, la Diocesi, il Comune e i suoi assessorati, la Sovrintendenza ai monumenti, la Vigilanza Urbana: adesso le rampe, anche se non molto comode, ci sono, ed è possibile andare dall’interno del Duomo a Piazza della Scala in carrozzina. Lì poi, con il traffico che c’è...   Altre battaglie per la concessione dei permessi di guida ai disabili: Piergiorgio era fiero perché  riusciva a ingannare i componenti le commissioni per la concessione delle patenti sul livello della sua lesione agitando le mani inguantate  a riprova della loro efficienza: guidava benissimo la sua automobile modificata. E  la sua partecipazione alla lotta condotta in Italia, con ottimi risultati, per la introduzione dei bambini disabili nella scuola normale. Aveva due splendide bambine, una è stata mia allieva. Anche Piergiorgio ci ha lasciato: che, come ci ha insegnato a dire Gianni Brera, la terra gli sia lieve.

E naturalmente don Carlo Gnocchi.  Ho potuto stare insieme a lui poche volte, nei primi anni 50, ma sono stato conquistato subito dal suo magnetismo. Mi ha chiarito  molte delle idee incerte che coltivavo da qualche tempo, soprattutto che non fosse sufficiente dare ad un bambino poliomielitico la possibilità di camminare ancora, e neanche  insegnargli un mestiere.  Bisognava trovargli un lavoro, anche se questo lo allontanava per molti anni dalla sua famiglia. Oggi, se Dio vuole, da noi non è più necessario, ma ho ritrovato la stessa esigenza quando sono stato in Kenya.  Mi ricordo un pomeriggio di autunno, a Roma in occasione di un  congresso sulla poliomielite. Eravamo a palazzo Barberini, su un divano nero di pelle, e don Carlo mi spiegava come faceva a trovare aiuto economico dalle persone che potevano darglielo. E mi ha fatto vedere un libretto nero con l’elastico, dove annotava le speculazioni fatte in borsa dall’interlocutore, che alla sua vista tirava subito fuori il libretto degli assegni. E’ strano come si presentino i ricordi: quasi sessanta anni dopo, ho ancora vivi nella memoria  la penombra della sala, il nero del divano,  il nero della tonaca, il nero del libretto, l’azzurro degli occhi di  don Carlo. Don Carlo Gnocchi era un grande santo lombardo.

In questa rubrica, ho ricordato alcuni di quelli con i quali  ho condiviso passioni e idee. Ma nei primi due decenni dopo la guerra, Milano era davvero ribollente di idee, iniziative e personaggi: era il tempo della ripresa – forse val la pena  di ricordare che Milano era stata distrutta al 60°% dalle bombe alleate- e poi del boom economico. Emblematico il ritorno di Toscanini alla Scala. Ho avuto la fortuna di assistere ad una delle ultime prove, nascosto tra le poltrone della sala. Toscanini non ammetteva intrusi, e le sue reazioni erano molto vivaci.

Così, anche io ho avuto l’occasione di conoscere  tanti  personaggi a vario titolo importanti, che mi fa piacere ricordare. Lo farò nella prossima rubrica, se la bontà degli editori e la pazienza dei lettori me lo consentiranno.

venerdì 6 gennaio 2012

ET DE HOC SATIS


ET DE HOC SATIS

Silvano Boccardi



Prima  di tutto, due parole sui precedenti. Qualcuno dei miei venticinque  lettori ricorderà una mia nota pubblicata su un bollettino del GSS del 2006  che ribadiva la necessità di riflettere prima di accettare  proposte di metodiche rieducative quanto meno discutibili,  e in particolare prive di attendibili  prove dell’efficacia dei loro risultati.  In mancanza di queste ritenevo, e ritengo, necessario ricercare nei lavori originali le prove dell’attendibilità delle proposte. Su richiesta dei frequentatori abituali delle nostre riunioni di aggiornamento presso la Fondazione Don Gnocchi a Milano prendevo in considerazione, tra le altre, le metodiche di produzione francese, molto diffuse anche in Italia negli ultimi venti anni, basate per lo più su tecniche indirizzate in particolare a muscoli e fasce, considerati responsabili della maggior parte dei danni funzionali dell’apparato locomotore.

Chiedendo scusa per quella che poteva sembrare, e non voleva essere, un’operazione di sciacallaggio, riconoscevo per primo che non è corretta una selezione di proposizioni distaccate dal contesto (anche se un’affermazione chiaramente erronea rimane un’affermazione erronea quale che ne sia il contesto), e la possibilità che una parte delle incomprensioni potesse essere dovuta a cattive traduzioni: anche se nella maggior parte i lavori erano stati letti nell’edizione originale in francese.  Avevo rilevato 2 affermazioni di Mlle Mézières, 24 di Bienfait, 2 di Busquet, 17 di Souchard.

 Avevo diviso le affermazioni contestate in due gruppi: quelle certamente erronee o male espresse,e quelle ambigue e non  comprensibili. Come mi aspettavo, alla redazione del GSS sono arrivate delle repliche:  da parte del sig Emiliano Grosso, del Centro di rieducazione posturale globale ‘studio Loriga’ di Roma, del sig. Orazio Mieli,presidente dell’AIRPG, e infine dello stesso mr Souchard. Alle lettere di Grossi e di Souchard avevo tentato di rispondere con due note che credevo corrette ed esaurienti, regolarmente pubblicate sul bollettino GSS. E qui  è terminata la corrispondenza. Mi rimaneva un rimorso: ero stato accusato giustamente di non essermi aggiornato sui recenti progressi  delle tecniche proposte. Anche se affermazioni in sé erronee restano erronee indipendentemente dall’epoca in  cui sono state avanzate.

Oggi la lacuna è colmata. Sul numero di ottobre del 2009 degli aggiornamenti dell’edizione italiana dell’Encyclopédie médicochirurgicale - Sezione medicina riabilitativa,  edita da Elsevier Masson, è  comparso un articolo a firma di PE Souchard, O Meli,  D Sgamma e P Pillastrini, dal titolo Rieducazione posturale globale,  Ci siamo: qualcosa su cui discutere. E’ recentissimo;  è più che autorevole, la prima firma è del fondatore del metodo  (viene definito ’Autore’ della rieducazione posturale globale: è strano, sarebbe come se Fleming fosse definito l’Autore del trattamento con penicillina della gonorrea); non ci possono essere errori di traduzione, tre degli autori, bravi, sono italiani.

Dopo i chiarimenti, almeno nelle intenzioni, di  tre anni fa, posso  finalmente esprimere un parere    che, per quello che vale, non può più essere imputato a una scarsa    conoscenza     del problema.

Purtroppo le mie perplessità di allora non possono che uscirne rinforzate. Poche osservazioni, divise per argomenti, ovviamente con tutto il rispetto per i terapisti, che certamente operano con dedizione e destrezza, e  senza mettere in dubbio i risultati da loro ottenuti. Ma di quante tecniche e metodiche, in sessanta anni di personale impegno, ho sentito vantare analoghi risultati? Diecine, forse centinaia. Aveva ragione il nostro Nachemson: non importa cosa fai al tuo paziente, importante è che tu gli faccia qualcosa. E Adriano Milani Comparetti, maestro di molti di noi, non per niente fratello di don Lorenzo, diceva:  non dare al paziente una terapia, dagli un terapista (sottintendeva naturalmente ‘bravo’).

E allora, nell’ordine  e  per argomenti

Fisiologia neuromuscolare

 I muscoli composti per la maggior parte da fibre di tipo IIB avranno maggior forza rispetto  a quelli con fibre di tipo I… a parità di superficie di sezione!

La resistenza fibroelastica migliora con l’aumento della stiffness muscolotendinea: la resistenza fibroelastica é una delle componenti della stiffness muscolotendinea (Baldissera), per cui è semmai vero il contrario, la stiffness muscolotendinea aumenta (migliora non vuol dire molto) con l’aumento della resistenza fibroelastica.

 Poste in essere dal sistema nervoso autonomo: nel linguaggio dell’anatomofisiologia, il sistema nervoso autonomo è quello che presiede alle funzioni vegetative, non quello che controlla i movimenti ‘autonomi’ qualunque cosa questa espressione voglia dire.

 Invidio la grande sicurezza nell’identificare natura e compiti dello schema corporeo. Ho cominciato a pormi il problema negli anni 40 e sono ancora pieno di dubbi.

 Nella descrizione delle funzioni muscolari, non si tiene conto dell’effetto che una contrazione di un muscolo determina a livello di altre articolazioni oltre quelle che attraversa. In un sistema multiarticolare,la contrazione di qualsiasi muscolo può causare l’accelerazione di un segmento remoto, attraverso interazioni inerziaIi.  Il soleo può essere un estensore del ginocchio. Ne ho la prova quando ne constato la funzione nel mio arto inferiore destro paretico, come sostituto del quadricipite che non  si attiva: quanto si può imparare dai propri guai!  In stazione eretta, quando il momento flessorio al ginocchio diventa maggiore del momento  estensorio alla tibiotarsica, il gastrocnemio diventa un flessore dorsale della tibiotarsica  (Zajac e Winter). Purtroppo, circa il 40% dei lavori citati dall’articolo in bibliografia risalgono al secolo scorso. Nel campo della neurofisiologia  applicata al movimento  negli ultimi anni sono stati fatti interessanti progressi.

 Le risposte fusali sono così complesse che penso proprio che si rifiuterebbero di essere considerate solo un meccanismo di inibizione. Anzi.

Biomeccanica

Il compito muscolare è quello di contrastare la forza di gravità oltre che il peso dei segmenti corporei..  il peso è il modulo della forza di gravità, non sono due cose distinte.

 Il punto di applicazione del peso G (accelerazione di gravità) …G è effettivamente il peso, ma è uguale alla massa per l’accelerazione di gravità, che è (g)

 Se G cade lontano dal punto di appoggio articolare., G non cade, almeno è sperabile. Tutt’al più la verticale condotta per G (direzione della forza di gravità) incrocia l’orizzontale a livello..

Perchè la situazione sia statica occorre, come detto, che i momenti delle forze antagoniste, e non le forze in se stesse, siano uguali e contrari. Nella  figura 5 la forza fm dovrebbe essere uguale a tre volte  G, che ha un  braccio tre volte maggiore.

A partire da un punto fisso superiore…cioè?

 Cosa è il punto di rigidità di un muscolo? La rigidità, che è la traduzione letterale di stiffnes, dovrebbe essere l’inverso dell’ estensibilità. Quale ne sarebbe il punto? E poi ogni miofibrilla… E’ la fibra che è circondata dal connettivo (endomisio, vedi figura) e non la miofibrilla. E come si potrebbe allungare il  connettivo se è già stato raggiunto il massimo allungamento possibile (penso sia questo il punto di rigidità)?

Nella formula del fluage sarà meglio chiarire che il fattore tempo è al numeratore: dal testo non  è evidente. Sarebbe meglio allungamento = forza di trazione X tempo / coefficiente di elasticità. Dal testo proposto si può dedurre che meno tempo dura la trazione più il muscolo si allunga.

  La conservazione dei risultati da parte del sistema automatico: che cosa è esattamente il sistema automatico? anche i movimenti ‘più automatici’ si servono dello stesso substrato anatomico del  movimento volontario (Massion)

Parlare di  muscoli più tonici e di forza tonica (o isometrica) e in genere di tono è un bel rischio. Forse  val la pena rileggersi il nostro Bernstein. E Granit, e Matthews e Morton e Ralston e Basmajian, e anche lo stesso Sherrington.   E pensare che  tra i primi avversari di questa visione del tono ci sono stati proprio i riabilitatori francesi: Tardieu, Tabary, Massion

Cinesiologia

 Tra le funzioni fondamentali del ruolo ‘statico’ dei muscoli è citata  la funzione di elevazione.  Elevazione è un movimento (Devoto Oli: innalzamento lento di un arto),    indica l’andare o portare in alto. Come può essere una funzione statica del muscolo?

Per  la stazione eretta, è necessaria la partecipazione dei muscoli adduttori e rotatori interni, che progressivamente portano gli arti inferiori a una completa adduzione. In stazione eretta, le anche non sono ‘completamente’ addotte, ma in posizione 0:  è ancora possibile un’adduzione di 20-30°: basta spostare il bacino da un lato. Comunque l’atteggiamento delle anche in stazione eretta non è  legato necessariamente all’azione degli adduttori della coscia. In presenza di un attrito sufficiente, i nostri piccoli poliomielitici con tutore bilaterale e adduttori paralizzati stavano in piedi  e camminavano.

 Atteggiamento posturale: continuo a pensare che sia una tautologia, postura = atteggiamento

La locomozione  avverrà in seguito, dopo che la stazione eretta potrà essere mantenuta con sufficiente sicurezza. Molti bambini,  quasi tutti, camminano ( fanno dei passi) prima di essere in grado di mantenere stabilmente la stazione eretta senza appoggi. E’ quanto avviene anche in pazienti adulti atassici

Il raggiungimento della stazione eretta avviene partendo dall’attivazione ..dei muscoli posteriori del tronco nella posizione quadrupedica… In questa posizione lavorano gli addominali per bilanciare l’effetto della gravità, che estenderebbe il tronco. Si può provare.

Allo scopo di  trasformare l’azione muscolare diretta verso il basso in forza verticale antigravitaria. non è facile capire cosa vuol dire ‘l’azione  muscolare verticale diretta verso il basso’: la componente verticale verso il basso della forza dei muscoli? tutto dipende dalla posizione dei segmenti.

Non è vero che la leva più utilizzata in fisiologia muscolare sia  la leva con fulcro intermedio: nella maggior parte delle attività motorie i muscoli agiscono su leve di terzo ordine.

,,,può rendere necessaria la presenza del tricipite surale che a livello posteriore rappresenta una forza supplementare: a che cosa è supplementare il tricipite surale?

 Delle catene muscolari intese come strutture anatomiche permanenti (non dissociabili, nel testo) non sono il solo a pensare tutto il male possibile (vedi Rulli e Saraceni, La rieducazione posturale, una riflessione critica, editore erre). I muscoli  si contraggono (quando si contraggono) con intensità e con timing che sono in funzione delle forze esterne agenti. Al collo, in stazione eretta a testa inclinata all’indietro, sono contratti i flessori, non gli estensori. Una catena muscolare particolarmente poco verosimile  è quella definita ‘anteriore dell’arto superiore’. Le posizioni e i movimenti della mano  e delle dita, caratteristici dell’uomo, sono praticamente infiniti e ottenuti con infinite combinazioni di interventi muscolari.

 Delle catene muscolari si formano di volta in volta in funzione delle richieste (perchè non chiamarle sinergie?):  oltre quelle necessarie alle fissazioni in serie, ad esempio, sono importanti anche le contrazioni a mira neutralizzatrice degli agonisti, sempre che il temine agonisti abbia un significato nel mantenimento della postura. E  meno male che il quadricipite, indispensabile nel mantenimento di molti atteggiamenti  e in molti movimenti plurisegmentari, è escluso dall’enumerazione dei muscoli facenti parte delle catene. Forse perché il retto femorale è flessore (all’anca) e estensore (al ginocchio?

 L’analisi degli interventi muscolari nella respirazione richiederebbe qualche pagina : non è così semplice.

 Se i segmenti si muovono, non sono posture.

Trattamento

D’accordo sulla partecipazione attiva del paziente, ma cosa vuol dire causalità?  se ci si riferisce alla cause dirette del sintomo disturbante, molto meglio l’espressione ‘meccanismo patogenetico’ dell’ottimo Paolo Crenna. E la globalità, termine di gran moda ma  non  facile da definire, così come il trendy ‘olistico’: tutta la medicina è olistica, o non è medicina. Globale indica tutti i muscoli del corpo, cosa difficile da realizzare, o tutti quelli implicati in quella postura o in quel movimento?

Cosa vuole dire, nel contesto, una corretta morfologia: corretta rispetto a che cosa? L’estetica, la simmetria, la fatica, il rendimento?

Mi rifiuto di pensare che la RPG possa correggere un ginocchio valgo

Quali sono ‘i limiti della fisioterapia stessa’, di quale fisioterapia si parla?

Per finire, è possibile ridurre tutto il processo riabilitativo alla soluzione di un limitato problema  meccanico? Oggi che, come ci avverte Tesio,  sono in corso di superamento opposizioni storiche come nervoso-meccanico, volontario-involontario, sensazione-movimento, motorio-cognitivo, e che l’esercizio è visto come una complessa forma di insegnamento-apprendimento all’interno della relazione terapeuta-paziente.

E adesso basta, appunto: ho detto (quasi) tutto quello che volevo dire. So bene che queste cose era meglio chiarirle direttamente con gli autori dell’articolo. Ci ho provato, ma senza risultato. Così, approfitto ancora una volta dell’inesauribile pazienza degli amici del GSS, per non tradire quanto sono venuto raccontando nei decenni a  centinaia di miei allievi sulla necessità di ben considerare le premesse teoriche delle tecniche che vengono loro proposte prima di utilizzarle, seguendo l’ammonimento   di Bachelard, che in questi casi ho trovato sempre utile e benefico: l’antipathie préalable est une saine précaution.

 Nel poco tempo che mi rimane, ci sono da fare cose più divertenti (more fun, come dice David Lettermann della lettura dell’autobiografia di Sarah Palin) che discutere sulla Rieducazione Posturale Globale. Mi raccomando, proto: con le iniziali maiuscole.