sabato 14 gennaio 2012

IO LI HO CONOSCIUTI 1

Silvano Boccardi

Siamo rimasti in pochi ad avere vissuto la seconda guerra mondiale e gli anni tumultuosi che  sono seguiti: le polemiche dell’ultimo 25 aprile ne sono state un’avvilente prova.
Io sono uno di quelli. E ho voglia di ricordare  alcune delle persone per l’uno o l’altro motivo eccezionali che ho potuto conoscere in quegli anni. Giovane medico, mi sono laureato nel 1947, ho avuto la grande fortuna di essere indotto ad un mestiere allora pressochè ignoto in Italia: quello che solo molti anni dopo si sarebbe chiamato ‘fisiatria’. Mi sono così giovato del vantaggio di chi non ha ‘ concorrenti’, o ne ha comunque pochi. Così, se una persona notevole aveva qualche problema motorio (si trattava per lo più delle conseguenze di un ictus) mi chiamavano a vederlo e a curarlo. Ho imparato solo dopo che in realtà non si trattava proprio di curarlo, secondo i dettami della scienza medica allora ancora piuttosto arretrata, ma di aiutarlo a cavarsela nella vita : adesso diciamo ‘aiutarlo a riabilitarsi’.

Vorrei cominciare da quelli da cui ho imparato molto e forse tutto, e che hanno condizionato la mia visione della riabilitazione, visione nota ai lettori che hanno avuto la bontà di leggere le rubriche che l’amicizia del GSS mi ha consentito di pubblicare in  questi anni.

Per prima, Adelaide Colli Grisoni, donna  eccezionale, a cui dobbiamo la prima lucida esposizione dell’intervento riabilitativo nei bambini con paralisi cerebrale infantile, e in qualche modo l’affermazione di una neuropsichiatria infantile (mi sono a volte dovuto chiedere se  infantile è la neuropsichiatria o il neuropsichiatra) libera dal giogo di un’eccessiva medicalizzazione.


Ricordo qui due lapidarie affermazioni tratte dall’introduzione a ‘L’assistenza educativa al bambino con pci nella prima infanzia’ pubblicato da Cappelli nel 1968: ‘l’opera di recupero nei primi anni è diretta dal Medico e svolta dalla madre’ e ‘niente ginnastica, niente metodo X, niente terapista a casa che fa la seduta’. Interessante tra l’altro che la m di ‘medico’ sia maiuscola e quella di ‘madre’ minuscola: forse un tentativo di farsi perdonare da una categoria la cui egemonia, nel campo dell’assistenza al bambino  con pci, veniva così lucidamente messa in crisi.


E’  stato un vero colpo di fulmine. In margine al primo congresso della Società Italiana di Ginnastica Medica, nel 1952, in una bella mattina di primavera in gondola, sulla laguna di Venezia, chiacchieravo con Adelaide Colli Grisoni, reduce da un viaggio di ricerca su  quanto e come  si faceva nei paesi più evoluti in fatto di assistenza ai bambini con pci. In Italia, un paio di anni dopo doveva essere promulgata la prima legge sull’assistenza agli spastici  (è brutto, ma allora erano chiamati così). E in Italia mancavano strutture e soprattutto medici e terapisti preparati. La Colli (come la chiamavamo) mi chiedeva di aiutarla a realizzare una scuola per terapisti. Mi sembrava un sogno, ma solo un anno dopo presso l’Ospedale Ca’ Granda di Milano partiva il primo corso ufficiale per fisioterapisti istituito dall’ACIS: non  c’era un  Ministero dalla Sanità. La ricordo alta, sottile, di una eleganza sobria, non amava indossare gioielli: ricordo le  difficoltà incontrate quando abbiamo deciso di dimostrarle con un dono il nostro affetto. Era difficile resistere alla Colli, anche quando chiedeva energicamente alle mamme di occuparsi a tempo pieno ma ‘come una mamma’ e non come una terapista del loro bambino ‘spastico’, e di non trascurare gli altri figli: e anzi le incitava ad avere un secondo bambino quando il primo era spastico.

E Alfredo Grossoni: il miglior neurologo che abbia conosciuto. Non era  specialista e tantomeno ‘’professore”. Ma aveva  un impegno  nell’approccio al paziente che ho riscontrato raramente: mi ha insegnato che una visita neurologica seria non può durare meno di un’ora. E  un fiuto clinico incredibile: ho assistito alla discussione di un caso con un altro bravo neurologo del tempo, Alessi, su un caso interessante. Alessi gli richiamava la pag. 231 in alto a destra di un poco noto trattato tedesco, che conosceva a memoria e che suggeriva una diagnosi. E Alfredo gli ricordava a sua volta, grattandosi il naso affilato con una mossa che gli era abituale quando era perplesso, il caso di ‘quell’avvocato che abitava in  via Carducci, che aveva una cravatta a pallini e una cameriera che preparava un ottimo caffè’ per il quale avevano fatto insieme un’altra diagnosi che si era dimostrata giusta. E naturalmente aveva ragione lui. Aveva introdotto in Italia la pneumoencefalografia. Fasiani, il primo neurochirurgo italiano di fama,  chiedeva a lui di segnare sulla cute del cranio del paziente il punto dove  avrebbe dovuto aprire.


Aveva fatto la resistenza. Comunista fino alla tragedia dell’Ungheria quando ha avuto il coraggio di dichiarare in sezione il suo dissenso: allora ce ne voleva. Ma soprattutto gli volevamo bene per la sua disponibilità e generosità. Mi ha insegnato lui a non  farmi pagare le visite. Magrissimo, mi ricordo un caldo giorno di estate, a mezzogiorno, seduti su una  panca del grande atrio centrale della Ca’ Granda. Mi mostrava commosso il panino con prosciutto che gli era stato offerto dalla moglie di un paziente del contado, dicendogli: ‘Poverino, mangi, è così magro’.  Aveva una Citroën due cavalli, con una sedia al posto del sedile di guida, e si meravigliava che non avesse mai bisogno di rabbocchi di acqua e olio, ma neanche di rifornimenti di benzina. Gli amici facevano a turno per riempirgli di notte il serbatoio.

Silvano Mastragostino, ortopedico rizzoliano di grande valore: per questo, e per il carattere schietto di romagnolo, non è mai salito in cattedra. Si chiamava Silvano perchè era nato un anno dopo di me e le nostre mamme erano molto amiche. Era primario al Gaslini e si era fatto una grande esperienza di interventi in età evolutiva: allungamenti di arti, correzioni di scoliosi, trasposizioni tendinee. Era quindi destino che ci riincontrassimo. Silvano andava tutti gli anni in Kenya, al centro di riabilitazione di Ol’ Kalou, dove era atteso come un messia. Provvedeva a tutto lui: i viaggi dei suoi accompagnatori,  suoi collaboratori  ma anche altri specialisti,  e tecnici ortopedici. Per tre anni (86-88) ha portato anche me. Ma anche materiale per gli interventi e le ingessature, farmaci. E soldi. Aveva impiantato a Ol’ Kalou, con l’aiuto di una ditta di Genova, una piccola officina ortopedica perfettamente funzionante: produceva ortesi, scarpe, corsetti, anche ottime protesi. Erano molto belle e produttive  le sedute dell’intera équipe che decidevano gli interventi: più di un centinaio ogni anno. Le conclusioni erano all’insegna, a me graditissima, del ‘togliere’ tutto quanto non fosse essenziale. L’esperienza africana aveva insegnato a Silvano, e poi a tutti noi, come obiettivo dell’intervento, chirurgico e riabilitativo, dovesse essere il recupero della funzione, anche se questo implicava la rinuncia alla soddisfazione dell’operatore per interventi complessi e difficili. Un’osteotomia sopracondiloidea (tra  l’altro piuttosto semplice sulle ossa sottili del bambino poliomielitico: spesso  bastava un’osteoclasia) era di gran lunga preferibile a un intervento di trasposizione  del bicipite pro quadricipite, che dava problemi anche in fase di rieducazione e di solito era scarsamente efficace: tranne nel cammino, dove a volte il bicipite trasposto, stirato in fase di appoggio, si contrae in quanto flessore mentre agisce come estensore. La stessa regola valeva per le ortesi: a che pro dare al bambino delle scarpe ortopediche fabbricate con le correzioni perfette al momento, se poi doveva indossarle nella boscaglia o nella savana e non aveva possibilità di ripararle o di sostituirle per un anno? Lezione che ha influenzato il mio modo di pormi nell’attività quotidiana. E’ giusto sottoporre un emiplegico, che statisticamente può aspettarsi in media due anni di sopravvivenza, a lunghi fastidiosi periodi di rieducazione e addirittura a restare in letto fino a sei mesi, come preconizzato da varie parti, fino a che non abbia recuperato le sinergie corrette prive di sincinesie? E intanto ha  dissipato un quarto della sua aspettativa di vita. Poi Silvano e i suoi collaboratori operavano. I risultati funzionali erano davvero spettacolari e le complicanze rarissime. In un anno, su 120 interventi, un solo caso di infezione nonostante le difficoltà ambientali: ho visto il famoso chirurgo  lavarsi prima di un intervento le mani in un catino smaltato mentre la fanciulletta nera gli versava l’acqua da una brocca.  Grande lezione di efficienza e anche di umiltà: quello che conta alla fine dei conti è se e di quanto abbiamo migliorato la  vita e le ‘possibilità di partecipazione’ del paziente.

Piergiorgio Mazzola, grande esperienza di informatica che lo ha aiutato nella sua preziosa opera di divulgazione a favore dei disabili. Tetraplegico C6-C7 per aver ruotato bruscamente il capo mentre era alla guida della sua auto perché la figlioletta di pochi anni piangeva sul sedile posteriore: drammatica dimostrazione della persistenza dei riflessi tonici del collo in età adulta, in particolari condizioni. Appena in grado di muoversi su una carrozzina, dapprima manuale poi elettrica, ha messo la sua intelligenza e la sua disponibilità al servizio dei suoi compagni di sfortuna. Sono stato con lui fin dal principio: abbiamo condiviso per un certo tempo il mio tavolo di lavoro al centro pilota della Fondazione don Gnocchi. Gli incontri con lui e i suoi amici e compagni erano molto fruttiferi. E’ nata in quel gruppo la sostituzione, anche nei documenti ufficiali della regione Lombardia, dei negativi termini in uso fino allora, anche  a designare le associazioni:  invalidi, incapaci, minorati. con il termine  ‘disabili’. Tutto sommato molto meglio anche dei termini.. pietosamente pietosi che usano adesso: anche Usain Bolt è ‘diversamente abile’. E poi, l’anziano ’fragile’ come una statuetta di Sèvres o di Meissen!

Sono nati così, per merito di Piergiorgio, la pubblicazione ‘Informazione e Riabilitazione’  e il Centro Studi e Consulenza Invalidi, al centro pilota, per  elargire informazioni e consigli preziosi a centinaia di disabili  tutta Italia, che avrebbe visto il suo coronamento nell’istituzione da parte della Fondazione del SIVA (Servizio Informazione e Valutazione Ausili), che sotto la direzione di Renzo Andrich presto sarebbe diventato leader del  settore, e non solo in Europa.     E il DAT, la nuova struttura del Centro di cui la Fondazione può andare orgogliosa, dove si può conoscere e toccare con  mano quanto i progressi della tecnologia e l’esperienza dei disabili mettono a punto per migliorare la loro autonomia, non è che l’ingrandimento di quanto Piergiorgio , con l’aiuto prezioso della sua formidabile moglie, aveva raccolto nella sua casa milanese, mettendolo a disposizione di chi volesse conoscerlo e provarlo. Piergiorgio non si dava da fare solo per i singoli disabili. Suoi sono interventi a volte determinanti sulla agibilità delle strutture architettoniche. Ricordo, per avervi partecipato, la durissima lotta per ottenere la costruzione di rampe sui lati della scalinata del Duomo, dove non si poteva entrare in carrozzina. Impresa eroica, si trattava di mettere d’accordo la Fabbrica del Duomo, la Diocesi, il Comune e i suoi assessorati, la Sovrintendenza ai monumenti, la Vigilanza Urbana: adesso le rampe, anche se non molto comode, ci sono, ed è possibile andare dall’interno del Duomo a Piazza della Scala in carrozzina. Lì poi, con il traffico che c’è...   Altre battaglie per la concessione dei permessi di guida ai disabili: Piergiorgio era fiero perché  riusciva a ingannare i componenti le commissioni per la concessione delle patenti sul livello della sua lesione agitando le mani inguantate  a riprova della loro efficienza: guidava benissimo la sua automobile modificata. E  la sua partecipazione alla lotta condotta in Italia, con ottimi risultati, per la introduzione dei bambini disabili nella scuola normale. Aveva due splendide bambine, una è stata mia allieva. Anche Piergiorgio ci ha lasciato: che, come ci ha insegnato a dire Gianni Brera, la terra gli sia lieve.

E naturalmente don Carlo Gnocchi.  Ho potuto stare insieme a lui poche volte, nei primi anni 50, ma sono stato conquistato subito dal suo magnetismo. Mi ha chiarito  molte delle idee incerte che coltivavo da qualche tempo, soprattutto che non fosse sufficiente dare ad un bambino poliomielitico la possibilità di camminare ancora, e neanche  insegnargli un mestiere.  Bisognava trovargli un lavoro, anche se questo lo allontanava per molti anni dalla sua famiglia. Oggi, se Dio vuole, da noi non è più necessario, ma ho ritrovato la stessa esigenza quando sono stato in Kenya.  Mi ricordo un pomeriggio di autunno, a Roma in occasione di un  congresso sulla poliomielite. Eravamo a palazzo Barberini, su un divano nero di pelle, e don Carlo mi spiegava come faceva a trovare aiuto economico dalle persone che potevano darglielo. E mi ha fatto vedere un libretto nero con l’elastico, dove annotava le speculazioni fatte in borsa dall’interlocutore, che alla sua vista tirava subito fuori il libretto degli assegni. E’ strano come si presentino i ricordi: quasi sessanta anni dopo, ho ancora vivi nella memoria  la penombra della sala, il nero del divano,  il nero della tonaca, il nero del libretto, l’azzurro degli occhi di  don Carlo. Don Carlo Gnocchi era un grande santo lombardo.

In questa rubrica, ho ricordato alcuni di quelli con i quali  ho condiviso passioni e idee. Ma nei primi due decenni dopo la guerra, Milano era davvero ribollente di idee, iniziative e personaggi: era il tempo della ripresa – forse val la pena  di ricordare che Milano era stata distrutta al 60°% dalle bombe alleate- e poi del boom economico. Emblematico il ritorno di Toscanini alla Scala. Ho avuto la fortuna di assistere ad una delle ultime prove, nascosto tra le poltrone della sala. Toscanini non ammetteva intrusi, e le sue reazioni erano molto vivaci.

Così, anche io ho avuto l’occasione di conoscere  tanti  personaggi a vario titolo importanti, che mi fa piacere ricordare. Lo farò nella prossima rubrica, se la bontà degli editori e la pazienza dei lettori me lo consentiranno.

4 commenti:

  1. Buongiorno,
    sono la nipote di Piergiorgio Mazzola e mi ha commosso leggere questi suoi ricordi. Mi sono permessa di mettere un link alla sua pagina nel diario che sto trascrivendo con i ricordi di famiglia. Grazie ancora.
    Giuliana

    RispondiElimina
  2. Ho conosciuto silvano in un poliabulatorio di milano vua fantoli
    Dove venne a visitare mio suocero colpito da ictus ed dopo la visita usci con un grande sorriso
    Il prof.aveva consigliato di vivere e du trovarsi con gli amici davanti ad un bicchiere di rosso

    RispondiElimina
  3. Adelaide Colli Grisoni era cugina di mio padre e molto legata alla nonna paterna per cui non era raro che fosse a casa nostra.
    La ricordo proprio come é descritta e rilevo, con commozione, che amici medici di qui che l'hanno conosciuta (principalmente al Centro di Casciago)la ricordano ancora con stima e con tanto affetto

    RispondiElimina
  4. Ciao, sono psicologo clinico, e' un grande onore sapere di Adelaide Colli, una brava psicologa, penso della mia famiglia. Mi piacerebbe ottenere piu' informazione di lei, Mario Marzio Colli, mcolli2007@yahoo.es, grazie molto.

    RispondiElimina