lunedì 5 settembre 2011

La mia Tunisia

‘Tunis la blanche, la bien gardée, qui rit entre ses trois lacs comme un visage d’argent dans un miroir d’or…’

Così, come l’hanno cantata i suoi poeti, mi  è apparsa dall’idrovolante Savoia Marchetti sul quale arrivavo nel settembre del 1933. Mio padre, antifascista, vi aveva trovato un posto di insegnante di pianoforte al conservatorio della Dante Alighieri, che poi avrebbe diretto fino alla guerra.

Affascinato dal turbine degli avvenimenti, che considero e mi auguro inarrestabili, che in questi giorni coinvolgono tutta l’Africa del Nord, ho proprio voglia di rinnovare i miei ricordi tunisini. E spero che i lettori del GSS non me ne vogliano

Ho fatto a Tunisi, allora protettorato francese, il ginnasio e il liceo : uno strano liceo, come tutti i licei italiani all’estero. Di quattro anni ma con italiano. greco e latino del classico, scienze e matematica dello scientifico, tre lingue (francese, inglese, arabo).

A Tunisi c’erano tre licei: uno francese, uno arabo, uno italiano. Alla fine delle lezioni c’era folla  soprattutto davanti al liceo francese: alla ragazze francesi, quasi  tutte figlie di funzionari, spesso del Nord, alte, bionde con i capelli lisci, piacevano molto i giovani italiani, quasi tutti siciliani, non alti, bruni e ricci, occhi neri luminosi. E io ero alto, rosso di capelli, con le lentiggini e gli occhi verdi: che fatica.

Dovevo fare la maturità il 10 giugno del ‘40: coincidenza, la data dell’entrata in guerra dell’Italia contro la Francia. Non ho dato gli esami, purtroppo oramai mi ero preparato, ma in compenso mi hanno sbattuto subito in campo di concentramento, tra le montagne dell’Atlante algerino. Avevo 17 anni compiuti da poco. Per fortuna la guerra con la Francia è durata poco (è l’ unica volta che abbiamo vinto, in quella maledetta guerra, fino al riscatto partigiano del 1945) ma mi hanno subito espulso, forse l’ultimo, dalla Tunisia,  ancora ‘sotto protezione’ del governo francese di Pétain.

La Tunisia era ( spero lo sia ancora) un meraviglioso paese. Spiagge a perdita d’occhio, punteggiate da poche abitazioni bianche perfettamente inserite nel paesaggio: non c’era ancora lo scempio di Hammamet o Djerba che le fanno assomigliare sempre più a Rimini in estate. E all’interno, piantagioni a perdita d’occhio, merito per lo più dei lavoratori italiani. Allora gli italiani erano sessantamila, la maggior parte agricoltori, contro cinquantamila francesi. Soprattutto viti, ma anche aranceti e palme da dattero. Erano i miei primi datteri, e sono felice di trovarli ancora con la loro provenienza tunisina nei supermercati.

Disseminati nell’interno, i resti delle grandi città romane, Dugga, Tuburbo Majus, el Djem, ben conservate dalla sabbia. L’anfiteatro di el Djem è più impressionante del Colosseo romano. Ricordo durante la guerra una notte di incanto, sotto  le stelle, trascorsa nell’oasi circostante l’anfiteatro… E  gli splendidi mosaici romani conservati nel museo del Bardo, e i miseri resti della grande Cartagine che noi romani (io sono nato a Roma) avevamo sconfitto. Mi ha fatto impressione rendermi conto che il porto da cui partivano le navi della più importante flotta del mondo consisteva in pochi metri quadrati di acqua neanche troppo profonda.

Palme da dattero, su cui salivano con l’abilità di scimmiette i bambini arabi, abbellivano anche la grande avenue  principale, allora Jean Jaurès, ora credo Bourguiba, che porta dalla stazione ferroviaria alla Porta Grande (Bab el Kebir) che introduce al quartiere vecchio, dove una strada  stretta divideva le abitazioni e i negozi degli arabi da quelli degli ebrei.  Nella giusta stagione, l’avenue era pervasa dal profumo acutissimo dei gelsomini che i ragazzi arabi portavano in mazzetti sui treni provenienti dalle spiagge.

A Tunisi c’era una antica tradizione di pace tra arabi ed ebrei, molti dei quali erano i discendenti dalla diaspora dopo la cacciata dalla Spagna. Lo stesso posso testimoniare tra arabi, ebrei e italiani, che per lo più condividevano una condizione di tanto  lavoro e  scarsa remunerazione. Il mio miglior amico si chiamava, e spero si chiami ancora, non ne so più niente, Israel.

 Oltre tutto, tra gli arabi di Tunisi era molto diffusa la consuetudine rituale di un pellegrinaggio alla  Mecca, dopo il quale gli ‘Hadji’, diventano santi e debbono tenere una vita pacifica e lontana dalla violenza. Venivano (vengono?) infatti utilizzati per  lo più come custodi nei condomini  e nelle ville degli europei.

Auspico davvero di cuore per loro un futuro più generoso  di quanto non abbiano dovuto subire per secoli tra colonialismo, lotte tribali, dittatori,  giocattoli tra interessi che non erano certo i loro.

Lo stesso clima pacifico non si poteva dire per i rapporti reciproci tra italiani e francesi…maschi. La fisiologica competizione tra gruppi di giovani maschi era notevolmente aggravata dalla temperie politica: francesi conservatori, al più socialisti alla Léon Blum, e italiani in piena pseudorivoluzione fascista. Erano gli anni della conquista dell’impero, di cui noi italiani di Tunisi conoscevamo solo l’aspetto trionfale. Le cose sono andate un po’meglio, per breve tempo, sotto la presidenza francese del parafascista Daladier. Poi, come è noto, le cose sono precipitate.

L’antagonismo si mostrava  soprattutto nello sport. Nella squadra campione di calcio, l’Espérance. giocava ala destra una vecchia gloria juventina, Cevenini III, e centrattacco era Pietrangeli, padre di Nicola  che sarebbe diventato il grande campione di tennis.  Già, noi abitavamo nella casa dei Pietrangeli. Ricordo bene (e pure sono passati più di settanta anni) l’elegantissima padrona di casa e il nero, colossale alano, cui non so perché venivano tinte le unghie di rosso.

Il circolo italiano di scherma era diretto da un allievo  del celebre Nedo Nadi, Giacomelli. Per cui era facile per i giovani schermidori italiani trionfare in tutti i tornei, e non solo tunisini: uno di loro è stato campione italiano. E anche io, nel mio piccolo, partecipavo a questi tornei, e ho avuto la soddisfazione di non essere mai arrivato, a 15-16 anni, ultimo: c’era sempre un francese dopo di me. E dopo la gara, uscivamo dal circolo francese con in tasca i portacenere intestati, a mo’ di spregio.

Non solo nello sport; vincevamo anche nelle competizioni scacchistiche, grazie a delle formidabili fanciulle ebree che giocavano con noi. Mentre in Italia si preparavano le leggi razziali!

E c’erano le affascinanti incursioni nelle usanze arabe.

Il bey di Tunisi aveva, legittimamente, nove mogli, tutte più o meno belle E noi squattrinati ci consolavamo pensando ai suoi problemi quando per regalare una pelliccia alla moglie preferita doveva comprarne altre otto. Infatti, pur superando Tunisi i 40° all’ombra d’estate, a quel livello si regalavano preziose pellicce importate da Parigi.

 Giocavamo a scacchi all’aperto, nei patii, mentre le  donne arabe ci sorvegliavano dalle muscharabies. Una giovane, deliziosa signora mi ha raccontato la sua terribile esperienza. Amava già il possibile futuro marito, un giovane avvocato, che aveva appunto visto nel patio giocare a scacchi con il padre. Ma lui ha potuto vederla senza velo solo al termine dei tre giorni di cerimonia nuziale. Alla fine dei tre giorni, finalmente soli, lui poteva vederla: se non gli piaceva, poteva rifiutarla, naturalmente rinunciando alla dote, di solito qualche pecora. Ovviamente l’ha accettata con entusiasmo: ed erano felici. Che avessero ragione le loro abitudini?

 Cose da mille e una notte, come i bei caffè del centro, dove in una   strana atmosfera  ovattata, come sospesa, si sorbiva il caffè alla menta e si assaggiavano i rahat lukum, deliziosi dolcetti al miele. E si potevano ammirare giovani bellissime donne nella danza del ventre: un quadro, allora, più musical-religioso che erotico. Ancora, scusatemi l’ennesima citazione, Debussy: les sons et les parfums voltigent dans l’air du soir… E quanto  a suoni e profumi bastava entrare nei suk e nelle bottegucce dove i padroni ti invitavano per bere un caffè. E l’importante  non era la vendita, ma la contrattazione.

Sidi bu Said, la cittadina magica. Ancora case bianche, portoni e persiane azzurre, palme verdi, il mare sullo sfondo, il caffè in cima a una scalinata. E il piccolo cimitero: ho partecipato a un funerale. Il defunto avvolto in teli bianchi, deposto sopra  la sua tomba, piedi rivolti alla Mecca:  guardava il mare. E gli amici intorno a chiacchierare, anche con lui, e a dividere il pranzo. Tutto molto sereno.

A Kairuan, la città santa del sud, ho partecipato alla festa per una circoncisione. Nelle scuole coraniche i giovanissimi allievi  scrivevano sulle lavagne nere con i gessi bianchi i versetti del Corano che poi avrebbero lavato con un’acqua che sarebbe stata conservata in appositi recipienti. La parola di Allah a Maometto non poteva venire dispersa. Per la circoncisione veniva usata una lametta da barba (temo una Gillette usata). L’operatore era molto esperto. Delle fanciulline intorno ai dieci anni battevano ostinatamente e ritmicamente su dei tamburi, oscillando il capo da destra a sinistra e viceversa, per diecine di minuti e anche per ore, fino a star male. Allora lo speziale-barbiere-chirurgo le salassava con dei tagli verticali sulla fronte, inflitti con la stessa lametta della circoncisione: si riprendevano subito, e mai un’infezione. Nel frattempo, per la strada principale di Kairuan beduini vestiti con burnus e turbanti bianchi, su bellissimi cavallini arabi, ripetevano più volte la loro carica, sparando cartucce vere.

La Dante Alighieri promuoveva interessanti eventi. Ho conosciuto così molti artisti  e letterati italiani importanti del momento, oltre a musicisti come Casella, Poltronieri, Bonucci, la Schwartzkopf, scienziati come Enrico Fermi di passaggio verso l’esilio americano. Ho contribuito, nel mio piccolo, ad eventi importanti,  opere  poco conosciute come il  Maestro di Musica di Pergolesi, esecuzioni delle Laudi del Laudario di Cortona e dei più bei canti popolari italiani, esecuzione solenne nella cattedrale della Nona di Beethoven. Non male per un ragazzino di poco più di dieci anni.

Liberato dal campo di concentramento, dove ho imparato a giocare al bridge plafond con il confort di un pane e una cipolla in sei, mi hanno trasferito a Tripoli per trovare un passaggio per l’Italia. Sono stato su un autobus che portava in Libia i tonnaroli trapanesi: la pesca era terminata in quei giorni. E’stato un viaggio divertente. L’autista tunisino dava ordini in francese, io li traducevo in italiano per il capo, che a sua volta li traduceva in trapanese stretto. Per chi non lo conoscesse, il trapanese è ancor più incomprensibile del bergamasco delle valli.

La notte nei dintorni dell’oasi di Gabes, tra le palme. L’arrivo alla frontiera con la  Libia, allora italiana. L’ottima accoglienza da parte degli ascari   di guardia, che erano della stessa tribù di un ricco mercante libico che era con noi perchè era stato sorpreso dalla guerra in Tunisia: baci sul palmo della mano per lui, per noi  un’abbondante razione di pasta al sugo in un  catino smaltato con il bordo azzurro. 40° all’ombra, il vento che soffiava forte dal mare, la bandiera italiana che sventolava.

E così è finita la mia lunga avventura tunisina. Mi rendo conto di avervi tediato ancora una volta con le mie vicende personali, ma sono sicuro che chi mi legge capirà il mio rimpianto per una stagione, l’adolescenza, che, importante per tutti, era impreziosita per me dalla lontananza dal mio paese, dalla situazione in qualche modo privilegiata nella quale mi trovavo, dalla esoticità del contesto. Come ha detto Wolfgang Goethe  ( Le Affinita’ Elettive)  ‘non si passeggia impunemente tra le palme’.

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